DI ELODIE VUILLERMIN
Il libro comincia con un ottimo espediente, che mantiene alta la tensione: ci viene accennata l’apparizione di una “cosa enorme” in mare aperto. Per un bel po’ di pagine Verne rimane sul vago, senza sbilanciarsi sull’identità di quella strana creatura. La definisce “un oggetto lungo, fusiforme, talvolta fosforescente e molto più grande e veloce di una balena”. Poi, ne parla come uno scoglio che non rimane fisso, ma si muove nel mare, innalzando intorno a sé delle colonne d’acqua. Dopo ancora, come un cetaceo di innaturale lunghezza e velocità. Si sfocia infine nella definizione di mostro e la creatura viene paragonata a Moby Dick o addirittura al Kraken.
L’autore ci fa desiderare quella cosa enorme, con il risultato di tenerci incollati alle pagine con il fiato sospeso. La nostra curiosità è la stessa di coloro che avvistano l’essere. Siamo confusi quanto i personaggi della storia, incapaci di stabilire se abbiamo a che fare con un animale, un oggetto o una creatura mostruosa citata nelle leggende.

Si sollevano polemiche, si creano dei gran polveroni, si portano avanti congetture per mesi. Il fascino dovuto all’alone di mistero viene presto rimpiazzato dalla paura, quando il mostro marino comincia ad attaccare le navi e le affonda. Una suspense degna di Spielberg con il suo squalo assassino.
E infine, dopo sette capitoli e tanti indizi seminati qua e là come briciole… ecco che appare la creatura misteriosa. Una “balena” fatta di lamiere d’acciaio. È un sottomarino, il Nautilus.
A scoprirlo è il protagonista, nonché narratore in prima persona e testimone, della vicenda: il signor Aronnax, professore al Museo di Parigi ed esperto naturalista. Mentre la nave Abraham Lincoln, su cui viaggiava, dà la caccia al famigerato mostro marino, viene sbalzato fuori insieme al suo fedele servitore Conseil e al fiociniere canadese Ned Land: è così che viene salvato dal Nautilus e dal suo equipaggio, e la sua vita cambierà per sempre.
Il Nautilus è una meraviglia meccanica, grande anticipazione dei sottomarini, testimonianza vivente della “fantascienza” di Verne; qui il termine è inteso come la capacità di essere in anticipo sui tempi, di saper predire i progressi della scienza prima che accadano, e l’autore ci è riuscito alla grande. Una nave subacquea così immensa e avanzata a livello tecnologico che a tratti la scambiano per una balena, data la sua capacità di rilasciare aria in una maniera molto simile al respiro di un vero cetaceo. Una macchina che quasi sembra un animale, eppure lo supera in velocità e potenza. La tecnologia che emula la natura e al tempo stesso si rivela migliore di lei: è questa la parte affascinante del Nautilus.
Dentro di esso c’è un mondo, una piccola replica di civiltà umana. Ma soprattutto c’è un uomo, vero protagonista della storia: il Capitano Nemo. Un individuo freddo eppure ospitale, gentile e insieme crudele. Un personaggio il cui umore cambia allo stesso modo del mare: da calmo si può fare tempestoso in un attimo.
Viene descritto come un enigma vivente, un personaggio “fuori dell’umanità, inaccessibile a ogni sentimento di pietà, implacabile nemico dei suoi simili”. A seguito delle delusioni ricevute e dei dolori passati, ha rinnegato la sua casa terrestre e ne ha scelta una nuova nelle profondità marine. Non vuole che nessuno sappia della sua esistenza, per questo costringe Aronnax e i suoi compagni a far parte del suo equipaggio, tra l’altro nella convinzione di fare loro un favore: più staranno lontani dalla civiltà, migliori diventeranno.
È affascinante nella sua ambiguità morale. Per quanto obblighi i protagonisti a una reclusione nel Nautilus, si comporta in modo educato e abbastanza permissivo. È un uomo colto, con conoscenze in svariati ambiti, dalla letteratura alla scienza. È talmente scaltro e intelligente da essersi adattato perfettamente alla vita sottomarina e sa trovare nel mare tutto ciò che gli serve per sopravvivere. È un amante della musica e della pittura, nonché un collezionista di conchiglie. Nonostante tutto, non mostra pietà quando si tratta di affondare le navi di altri uomini.

Nel mare si può sentire il padrone di tutto, tanto nessun altro avrà mai il coraggio di reclamare quegli abissi come una sua proprietà. Non c’è niente e nessuno che possa deluderlo o ferirlo, laggiù. Ma è consapevole dei confini del suo regno e non si spinge oltre quei limiti. Deve tutto all’oceano e per questo lo tratta con riverenza, come se fosse un dio.
Ha rotto ogni legame con la terra, eppure non ha rinnegato la sua umanità. Salva la vita a un pescatore di perle che si trovava nelle sue stesse acque. Dimostra riconoscenza nei confronti di Ned, quando questi lo aiuta a uccidere uno squalo. Non uccide per il puro gusto di farlo e attacca le navi solo se sono queste a provocarlo per prime. Versa lacrime per la morte dei suoi compagni e dà loro degne sepolture. Gli uomini che considera oppressi, come lui, sono degni di essere salvati.
È un tipo molto orgoglioso. Si infastidisce se qualcuno paragona il suo Nautilus alle altre navi. La sua creazione è qualcosa di superiore e lo dimostra in più occasioni. È anche molto sicuro di sé, in un modo che a volte rasenta l’arroganza.
In certi punti quasi ti scordi che quella di Nemo è una prigionia e ti lasci semplicemente incantare dalle meraviglie del mare: montagne sommerse, barriere di corallo, ostriche giganti che producono perle di dimensioni notevoli, vulcani che eruttano sotto la superficie e scaldano le acque circostanti, e molto altro ancora. Trovi prima strano e poi naturale vivere in compagnia di un uomo che ti porta a cacciare animali in foreste di alghe subacquee, o che seppellisce i cadaveri dei propri compagni in tombe sotto i coralli (al sicuro da uomini e pescecani), o che ti guida in escursioni camminando sul fondale marino fino a portarti alle rovine di Atlantide. L’idea di tornare sulla terraferma, alla civiltà, non ti sfiora più. Ti senti indegno di riavere la tua vita di prima.
Se nella finzione letteraria questo è accettabile, nella vita vera uno come Nemo sarebbe da denuncia. Eppure è proprio per questo protagonista affascinante e grottesco insieme, tanto controverso quanto ipnotico, che commette azioni moralmente complesse, che Ventimila leghe sotto i mari mi ha conquistato, nonostante lo stile molto scientifico e poco scorrevole che avevo avuto già modo di vedere con I figli del capitano Grant e che sarà una costante di tanti altri romanzi di Verne.
Come nel precedente capitolo della trilogia, tutto si svolge in mare, ma stavolta è un elemento molto più centrale della storia.
Contro ogni tradizione della letteratura marinaresca c’è qui però un fatto assolutamente nuovo. Il mare non è visto in superficie, ma è scandagliato nelle sue abissali profondità e lo spettacolo che ne consegue è di una bellezza misteriosa, di una grandezza sconvolgente. Verne, che aveva la passione dei viaggi, realizza qui, per virtù di fantasia, il viaggio più eccezionale che si potesse immaginare a quei tempi; scende cioè negli abissi marini e attraverso quel mondo liquido e azzurro compie il giro del mondo.
Impariamo a conoscere il mare nella sua anima più vera e profonda, in tutte le sue sfumature, “con le sue collere furiose, le sue bonacce, i misteri e le meraviglie che racchiude nel suo seno”.
Il mare ha i suoi segreti, nascosti alla vista dell’uomo, accessibili solo a chi avrà il coraggio di immergersi tanto a fondo. È affascinante proprio perché gran parte dei suoi confini e delle specie viventi che lo abitano sono sconosciuti e inesplorati, nell’Ottocento come al giorno d’oggi.
Vuoi fare parte di quella bellezza sconosciuta, al punto che vorresti diventare pesce o anfibio e abbandonare la tua pelle umana. Ma alla fine, per quanto dorata, quella in cui Nemo trattiene i protagonisti è pur sempre una prigione, e alla fine è necessario abbandonarla. Una metafora dolceamara che si applica anche alla vita: il sogno, per quanto magnifico possa essere, a un certo punto finisce e si deve tornare alla realtà.


L’oceano, per Nemo, non è solo meraviglia. È il regno dove l’umano della superficie non ha potere, dove la sua influenza si estingue, dove ogni male è ridotto al nulla più assoluto. È indipendenza da qualsiasi regola e oppressore. È inizio e forse fine di tutta la vita. È calma suprema. Si può quasi considerare il mare come un enorme essere vivente, che si addormenta e si sveglia come fanno gli uomini, che ha i suoi battiti e respiri, che possiede pure una circolazione.
La vita, negli abissi marini, è così una continua scoperta, la cui bellezza ha il sapore dell’incubo…
L’uomo ha fame di conoscenza, deve per forza dare una risposta a tutto. Non c’è nulla che lo metta in agitazione più dell’ignoto. Per questo il mare, agli inizi, terrorizza i protagonisti e a tratti appare come un incubo celato dietro a un bel sogno. L’uomo teme il mistero ma ne è affascinato al tempo stesso, purché sia un mistero risolvibile, a cui sappia darsi una risposta.
Allo stesso modo, il Nautilus suscita terrore perché non si conosce la sua vera natura, non rientra in alcuna delle definizioni che la scienza dell’epoca cerca di dargli, non ha una chiara identità e su di lui si hanno solo ipotesi. Inoltre il concetto di macchina subacquea per viaggiare negli abissi era ancora impensabile all’epoca in cui Verne scriveva il libro.
Lo stesso Nemo è un mistero perpetuo: inafferrabile, sfuggente, difficilmente inquadrabile. Viene giusto accennata la ragione dietro il suo odio verso l’umanità, senza però entrare nei dettagli. Perfino il suo destino è enigmatico: forse è morto, trascinato via dallo stesso mare di cui si fidava più del genere umano, o forse no; per il momento non lo sapremo. Ma senza dubbio il suo nome e la sua esistenza, che erano segreti a tutto il mondo, verranno ricordati per merito di Aronnax.


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