Publio Virgilio Marone vs Steven Spielberg

DI ALBERTO GROMETTO

Ad oggi, che piacciano o meno, le storie d’avventura sono profondamente radicate nel nostro immaginario collettivo: che si tratti di pirati che prendono il largo oppure di avventurieri con tanto di cappello o frusta che vanno in esplorazione nel folto della giungla, o ancora di soldati spaziali che guerreggiano in nome di un Bene superiore contro le Oscure Forze del Male, questo tipo di narrazione ha un fascino unico e ineguagliabile. 

Ha origini antichissime il genere d’avventura: l’epica greca, quella di Omero, parlava proprio di guerrieri, navigazioni, lotte, peregrinazioni e via dicendo. Ma di tutte le opere risalenti a quel periodo, e rientrano nel discorso pure «L’Iliade» e «L’Odissea» (per citare di nuovo Omero), la mia preferita è da sempre «L’ENEIDE», che fu invece scritta da un fiero cittadino romano, su commissione del primo, vero Imperatore del Mondo: OTTAVIANO AUGUSTO

(Gaio Giulio Cesare Turino Ottaviano Augusto, primo Imperatore di Roma e del Mondo)

Quel fiero cittadino romano era PUBLIO VIRGILIO MARONE, e il compito che aveva ricevuto era di una delicatezza e un’importanza decisive: narrare, alla stregua di Omero per l’Antica Grecia, le origini di Roma, la sua storia, le gloriose vicende che portarono alla sua creazione. E così, proprio partendo da dove finiva la Guerra di Troia, Virgilio scrisse un’opera che ha dentro di sé i migliori tratti dell’Iliade così come dell’Odissea, sia la guerra combattuta in nome di alti ideali sia l’esplorazione e il viaggio alla ricerca affannosa di un luogo che potesse essere chiamato “casa”. 

Dopo dieci anni di guerra, Troia si sveglia e i Greci non ci sono più. La spiaggia è vuota, eccezion fatta per un dono: un enorme, monumentale, gigantesco cavallo di legno. Che bello!, si è finito di combattere. Così decisero di trasportare quel regalone entro le mura. I Troiani non sanno che dentro la pancia di quel cavallo si nascondono dei Greci, degli astuti e scaltri Greci che non avranno pietà e che nottetempo apriranno le porte ai compagni. Sarà la fine di Troia. Ma anche l’inizio di Roma.

(Publio Virgilio Marone)

Un principe troiano, infatti, caricatosi il vecchio padre Anchise sulle spalle, stringendo in una mano quella del figlioletto Ascanio e la spada nell’altra, mettendosi a capo di un manipolo di uomini riuscirà a salvarsi e a darsi alla ricerca di una nuova patria tutta da costruire. Quando troverà una terra, quella stessa terra che un giorno sarà “Roma La Grande”, dovrà combattere per essa. Prima il viaggio, poi il combattimento. Ma non siamo qui per parlare di Enea, anche perché la sua vicenda è talmente sfaccettata, variegata e complessa, oltre che unica e straordinaria, che non la finiremmo più di parlarne.

Torniamo invece a quella spiaggia troiana, la mattina che i Greci se ne andarono. Era davvero il caso di portare quel cavallo dentro la città? No!, tuonò il gran sacerdote Laocoonte. “Timeo Danaos et dona ferentes”. “Temo i Greci anche quando portano doni”. Non si fidava per nulla di quel bel cavallone. E aveva ragione, col senno di poi. Lui in città non ce lo voleva. Che fare allora? Ci pensarono gli dei a risolvere il problema. Come? Mandando su quella spiaggia due enormi e mostruosi serpentoni marini che fecero di Laocoonte e dei suoi due figlioletti Antifate e Tymbreus le loro prede: li stritolarono fino a farli a pezzi. Problema risolto: il cavallo sarebbe entrato in città! 

Vorrei però concentrare la nostra attenzione sulle parole con cui Virgilio ci presenta i due serpenti, e per essere ancora più precisi sulla disposizione delle summenzionate parole.

Citiamo dunque il Maestro. 

«Ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alta — 

horresco referens — immensis orbibus angues

incumbant pelago, pariterque ad litora tendunt».

Ed ecco che in coppia giungono da Tenedo attraverso le alte acque tranquille — (inorridisco a riferirlo) — con spire immani due serpenti e insieme s’avvicinano verso la spiaggia.

Virgilio, da Sublime Narratore quale è, mette in atto un’operazione molto precisa, che sarà tipica del genere d’avventura. Trattasi del meccanismo della suspence. Egli infatti non ci mostra subito i due serpentoni, ma ce li fa desiderare, ce li fa scorgere a poco a poco, ce li fa intravedere e… solamente in un secondo momento… dopo aver provocato tutta l’ansia e la tensione che voleva suscitare… ce li regala in tutta la loro nefasta essenza! Dapprima dice che sono in coppia, poi che stanno arrivando da Tenedo (isola turca collocata nel Mar Egeo), che stanno passando attraverso l’acqua tranquilla del mare… poi addirittura fa una pausa, per poter lasciare un suo commento: Inorridisco a riferirlo. Poi ci dice che hanno spire immani. E solo allora ci rivela chi sono: ANGUES. Cioè: serpenti. 

Sapete chi altro avrebbe fatto così, con altri mezzi ma con egual spirito, una ventina di secoli dopo? Un altro Narratore di straordinaria grandezza, un Uomo che ha raccontato Storie talmente belle e iconiche da aver cambiato il mondo, un cineasta in questo caso! O sarebbe meglio dire: il Cineasta per eccellenza. Se oggi il Cinema e la Settima Arte tutta sono quello che sono, è grazie a Lui: STEVEN SPIELBERG!!!

(Steven – SUBLIME – Spielberg)

Non ho idea se Steven sia un grande appassionato lettore dell’Eneide virgiliana, ma una cosa è certa: il meccanismo narrativo incentrato sulla suspence utilizzato dal cantore romano è lo stesso di cui il cantore statunitense ha usufruito in tante sue opere. Prima tra tutte, una delle sue più iconiche, il film che lo ha lanciato e che nel 2025 compirà mezzo secolo tondo tondo: il cult cultissimo de «LO SQUALO». 

La presenza del bestione marino è per la maggior parte del film suggerita: Spielberg non ci mostra subito lo squalo, ma ce lo fa intravedere a poco a poco, prima attraverso quel celeberrimo commento sonoro, poi facendoci vedere le vittime straziate, poi ancora mostrandoci la pinna, il sangue nell’acqua, e solamente alla fine della pellicola… Lui arriva! 

Lo squalo spielberghiano e i serpenti virgiliani ci vengono regalati a poco a poco, non si scoprono immediatamente al nostro sguardo, i loro narratori non se li bruciano in un colpo solo ma vi costruiscono sopra una narrazione il cui obbiettivo è quello di accrescere la suspense, la tensione, la paura. Forse a questo punto non è nemmeno il caso di chiedersi chi vinca la Grande Sfida di oggi. Perché abbiamo a che fare con due fratelli artistici la cui lezione più grande che ci consegnano è la seguente:

Non è importante la quantità di anni o la distanza che separa due Artisti o due opere. Quello che conta sono i sentimenti, le reazioni, le emozioni che si è stati in grado di suscitare. E che ancora oggi si è in grado di suscitare.

Venti secoli dividono Virgilio e Spielberg. 

Eppure hanno fatto la stessa cosa. 

Eppure siamo qui a parlare di loro. 

Eppure, anche se sono passati duemila anni o cinquanta, facendo la stessa cosa, sono capaci di emozionarci e di imprimersi indelebilmente nella nostra memoria.

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