DI MIRIAM PAOLETTI
Ogni uomo combatte l’affermazione di un certo suono di passi, e lo fa con gli strumenti che più gli si confanno, con quelli possibili per il suo corpo. Questo suono di passi è la peste.
É un suono stridulo, basso, pacato: non pare cattivo, non lo è infatti; è solo lì, solamente presente, e la sua partecipazione all’esistenza è già l’assurdità, la contraddizione. Infatti nasce piano, subito non pare diverso dal silenzio o dal niente o da quello che crediamo essere niente finché non lo udiamo. Ad un certo punto perché si alza si riempie di forza e si fa sentire con un moto dinamico birichino e quasi divertente o ridicolo: non è ancora opprimente, nell’adesso, perché inizia soltanto a divenire un po’ più indiscreto, un po’ più presente, un po’ più evidente, ma questo suono che non è un lento divenire ma è un lento accrescere che non è vita ma è nella vita allora diviene un po’ troppo vivo. É triste, sconsolato, e perciò forse inadatto a vivere la vita perché un po’ inetto eppure lo è in quella maniera in cui a volte sono tristi i vecchi, quelli che sanno e sentono e accettano d’essere vecchi perché conoscono l’ombra e l’accolgono come una “penombra lenta che non fa male”. Questo suono è presente come un’antica consapevolezza, una vecchia crepa o incrinatura aperta nella nostra impalcatura: è remota nel tempo eppure è in noi che siamo soltanto giovani ma è quasi un dolce ricongiungersi al suono che si aveva anche prima nelle orecchie distratte piene di vita e di gioiose speranze capaci di sostenere la pesantezza estrema di una intera esistenza felice. Non fa male perché per ora è solo lì, sempre presente, sempre costante, sempre appresso, come l’ombra cammina dietro al viandante solitario quando questo s’inoltra per le strade deserte e buie della città intervallate da improvvisi coni di luce spezzati da subitanei snodi divini in cui pare riassumersi la presenza della strada restante che nell’oscurità si mostra solo come vago presentimento. É un suono triste e non si può volergli male, ora, nell’attimo di questa presenza, perché è così familiare, così intimo, che la cadenza del suo lento avvicinarsi non è percepito come l’epifania di ciò che è nuovo e sconosciuto, ma al contrario come un passo arcaico, originario, rimembrato nell’oscurità del ricordo: quando si sente il passo dell’ombra, lo si riconosce – era già lì radicato allacciato alle maglie dell’esistenza, solo, non lo si era ancora voluto sentire. Voluto, perché il suono già rintoccava.
Ma un giorno si nasce una seconda volta, ed allora c’è l’inizio di tutto: c’è un secondo inizio nella vita degli uomini, ed è avvertito come doveva concepirlo Sisifo quando per la prima volta vedette il masso rotolare lungo il pendio. La prima origine fisica è quella che viene denotata come la nascita, quella che tutti riconoscono ed oltre alla quale non si crede si possa nascere ancora; ciononostante, può capitare che ne sovvenga una seconda, per la quale, a causa della quale, o grazie alla quale, si inizia a riflettere, e si nasce ancora, e ancora, e ancora.
E non si smette più: ormai non si può che vedere, e vedere significa vedere la peste e nascere ancora, e ancora, e ancora.
Perché si riflette, si vede che siamo tutti appestati: la peste è dovunque, nei nostri cari, conoscenti, negli altri che non vedono, ed in noi, se vediamo, benché vediamo. È lì, onnipresente, e solo il sonno degli uomini permette di continuare ostinatamente a vivere con l’ausilio ed il conforto di tutti quei baldanzosi ragionamenti, i quali, così astrusi e distaccati dalla pelle reale della vita, mostrano la pretesa di rivolgervisi direttamente, e così facendo l’avvinghiano, la costringono svogliatamente e ingenuamente nel fraintendimento. Tarrou dice che “il sonno degli uomini è più sacro della vita degli appestati”. D’altronde, seppure il buon gusto, che alcuni uomini possiedono, consista nell’intuire la sacralità del sonno e non insistere sui motivi della stessa, mentre quando il cattivo gusto rimane in bocca allora non è più possibile dormire, comunque, in ambo i casi, si permane appestati: non si guarisce dalla peste, e, se si vede che scema, tale dileguarsi non consiste in un annientamento della stessa, in una liberazione degli uomini: è solamente un lento ritrarsi, contrarsi fino a quando non si presenterà l’occasione in cui verranno svegliati altri sorci per mandarli a morire in un’altra città felice.
Tarrou capisce che tutti abbiamo la peste, essa o è radicata nell’esistenza o è l’esistenza stessa, il suo centro segreto: sentire l’esistenza.
Tarrou capisce che non basta altro oltre che un gesto per uccidere qualcuno, prima nell’anima che nella carne, per poi volgere velocemente lo sguardo oltre il moribondo, scrutando il prossimo buon motivo per cui non vedere e non capire ciò che avviene dirimpetto a noi.
Tarrou capisce che siamo tutti giudici imbellettati da fronzoli e orpelli, rinchiusi in quelli che consideriamo i nostri spazi personali, occupati ad emettere sentenze attraverso le quali pretendere l’ennesima testa: “signori, quella testa deve cadere”.
Tarrou capisce che ci sono sempre valide giustificazioni in nome delle quali essere assassini, da ambo le parti, come la giustizia, il dovere, la morale, la ragione, la dignità umana.
Ed in questo marasma di buoni “motivi per”, nessuno è dispensato dall’essere vittima o carnefice: perché Tarrou riconosce esclusivamente il flagello e le vittime, e null’altro oltre ciò, allora si comprende che, gli spazi entro i quali ognuno si circoscrive, delimitandosi, e nascondendosi, rifugiandosi, sono precari; si giustifica quel luogo attraverso le invenzioni più originali, ma, pertanto che vi si continui a soggiornare, allora ci sarà sempre l’eventualità di divenire improvvisamente vittime. D’altronde queste stesse si dimostrano carnefici in quanto, poiché ognuno vuole essere giudice degli altri per non esserlo di sé stesso, allora in tale occupazione ritrova una distrazione, casomai si riesca a vedere lucidamente le concause del reale.
Ebbene, Tarrou capisce, e lui conosce tutto della vita: quando la peste arriva ad Orano, come lui stesso dice al dottor Rieux, lui la conosceva già, nel cuore degli uomini prima che nella carne.
Pertanto, lui decide – e nella decisione, e solo in essa, s’erge il moto, in assoluto più espressivo, dell’individualità, unico polo contrastante la vastità impersonale in cui sguazza la peste – di non essere assassino. Egli, perché vede gli uomini vivi e non meri manichini sui quali far aderire un proprio bisogno impellente, allora tenta costantemente, in ogni momento, per tutto il tempo in cui scruta oltre la categoria dell’imputato, di ritrarsi da quella accomodante del giudice.
Tarrou è consapevole di quanto ogni singolo istante possa essere inesorabile nel momento in cui, a causa d’un attimo di distrazione, si rischia di respirare sulla faccia d’un altro, trasmettendogli il contagio: è necessaria un’attenzione estrema, stirata fin oltre i limiti del possibile sforzo umano, affinché si possa essere sempre vigili, affinché si possa capire ed evitare la distrazione fatale per cui si emettano le parole tremende che fraintendono e pongono fine alla vita d’un uomo o alla sua dignità, il che, probabilmente, è l’equivalente.
Tarrou non vuole ignorare gli uomini, e benché sappia che ciò corrisponde all’esilio, preferisce non essere più nulla per nessuno, isolarsi dalla storia, dall’eccezionalità, piuttosto che essere un assassino ragionevole capace di illustri discorsi; afferma, perentoriamente, che se non è permesso non uccidere, almeno gli sia concesso d’essere un assassino innocente, consapevole di ciò che è in suo potere e portatore, il più delle volte, di comprensione, perché egli, avendo il coraggio di vedere gli uomini, allora conosce tutto della vita – se non di poter evitare il male, almeno, ogni tanto, di poter fare un poco di bene.
Questo è il “guadagnar la partita”: vivere soltanto con quello che si sa e che si ricorda e privi di quello che si spera.
Tuttavia, perché si è lucidi rispetto alle motivazioni degli altri, allora non si può che essere costantemente consapevoli delle proprie: delle speranze che ogni volta ci muovono spontaneamente, conducendoci a compiere ancora un passo, ancora un altro passo nella direzione opposta alla peste, verso un orizzonte che mira asintoticamente oltre quell’ombra. Tarrou vive in tal modo, “cosciente di quanto c’é in una vita senza illusioni. Non c’è pace senza speranza, e Tarrou, che rifiutava agli uomini il diritto di condannare chiunque, che sapeva tuttavia come nessuno possa fare a meno di condannare e che anche le vittime a volte si trovano ad essere carnefici, Tarrou era vissuto nello strazio e nella contraddizione, non aveva mai conosciuto la speranza. Per questo aveva voluto la santità e cercato la pace a servigio degli uomini?”
Ogni uomo si costruisce un luogo in cui radicare i rimandi di una rete di significati; tale spazio, capace di non subire le ripercussioni della cadenza dei passi sì familiari e costantemente presenti, in continuo avvicinamento, vicini come la nostra ombra, ebbene, esso resiste fintantoché è viva la speranza, finché v’è qualcosa rispetto a cui si esercita la capacità di credere.
Camus dipinge magistralmente le speranze degli uomini: tutti quei nomi, quelle parole, quei volti intrisi di significato che servono ad attribuire senso all’esistenza quando questa è minacciata dal vuoto, soprattutto nel momento in cui la solitudine, dovuta all’isolamento, conduce gli uomini a fare i conti con la presenza continua del passo cadenzato, addietro loro, il cui eco priva l’esistenza di significato, vuotandola del personale. L’amore è la più grande speranza che l’uomo possa creare, ciò per merito del quale l’individuo, fino alla fine, può desiderare la propria felicità continuando a resistere, benché questa appaia irrealizzabile, giacché si crede che, confidando nel volto amato, ci si possa fondere nell’altro vincendo persino l’insorgere del vuoto.
L’amore di Dio, per il quale Paneloux è obbligato a scegliere o il Nulla o il Tutto e niente all’infuori di ciò: “chi può affermare che l’eternità d’una gioia possa compensare un attimo del dolore umano?”. La scelta gli si presenta nel momento in cui assiste alla morte dell’innocenza, dove gli diviene impossibile giustificare la miseria umana attraverso il concetto dell’imperscrutabilità degli intenti divini: il bambino che, con un urlo inumano perché voce delle grida di tutti gli uomini, si contorce per un’ultima porzione di tempo, distendendosi lungo un ultimo prezioso alito di vita, finché la malattia, che scorre nelle sue vene, non pone fine anche a quel candore immacolato, alla vita che così visibilmente pura è ancora degna d’essere vissuta.
L’amore familiare di Grand, fatto d’un affetto sincero nei confronti della stessa persona che lo abbandonò, la persona per cui vorrebbe soltanto avere il tempo, solo un poco di tempo, per scrivere una lettera e farle sapere che “possa essere felice senza rimorsi”.
Questo amore serbato nelle sue lacrime quando ricorda il tempo in cui la incontrò, il tempo in cui per intendersi bastava l’amore, solamente questo, e non la ricerca costante del modo giusto di scriverle qualcosa, qualunque cosa, trovare l’unica parola, così atroce, capace di salvare il loro amore e di trattenerla presso di sé.
Le lacrime nelle quali si riversa la verità dell’uomo solo e che lo stesso Rieux non può che capire: “che un mondo senza amore era come un mondo morto e che viene sempre un’ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro e del coraggio, per domandare il viso d’una creatura e il cuore meravigliato dall’affetto” – il mistero del poter provare meraviglia per qualcuno.
O l’amore di Rambert, il quale percepisce la vuotezza o la precarietà delle idee degli uomini. Egli intuisce che se non si è capaci d’un gran sentimento che duri, che resista e che faccia essere felici o tristi a lungo, allora non si è capaci di nulla che valga, e che, perché egli tenta di confidare disperatamente nella sua speranza, allora avverte la peste come una prigionia, nella quale l’unico modo di rendere reale al di fuori di lui il sentimento opprimente covato nel petto consiste nel gridare alla notte il nome della creatura amata, pur se consapevole che a nulla serve.
Senza la speranza gli uomini sono portati alla rassegnazione. Fintanto che permane il baluginare della fede rispetto al punto che si ritiene essere il nostro centro segreto, allora gli uomini possono soffrire, ma in tale punto persisterà la vita, il personale d’ogni uomo, l’individualità che si forgia costantemente nella perseveranza del ricordo, seppure tale memoria non serva a nulla nella solitudine dell’esilio; eppure, giunge un momento in cui, allo scopo di sopravvivere, l’uomo può solo mantenersi vivo, ed in ciò, l’amore diviene inutilizzabile, ed il cuore gli basta quel tanto per continuare ogni giorno a tollerare la costanza meticolosa della peste, rivelandosi insufficiente a provare il dolore che prima pareva insopportabile. L’uomo vive di speranza finché non deve soltanto sopravvivere: “alla fine d’ogni cosa ci si accorge che nessuno è realmente capace di pensare a un altro, fors’anche nelle peggiori delle sventure. Infatti, pensare realmente a qualcuno, è pensarci minuto per minuto, senza essere distratto da nulla. Ma ci sono sempre mosche e pruriti. Per questo la vita è difficile.”
Perciò la speranza è la vita degli uomini finché questi conducono un’esistenza che non è mera sopravvivenza.
Perciò, se si vuole piegare l’uomo fino a ridurlo a una mera cosa, allora si dovrà spegnerlo nella speranza, prima che nella vita, costringendolo in una rassegnazione disillusa ed indifferente rispetto all’avvicinarsi del contagio.
Perciò la peste di Camus può essere molte cose, e può esserlo perché ciascuno farà impersonare tale ruolo a ciò che in ognuno richiama il passo cadenzato, in reazione a quel che è covato come la scintilla della speranza, ciò all’insegna di cui vivere, ciò che si oppone al vuoto.
Tuttavia, c’è chi, come Tarrou o come Rieux, non può che essere onesto e rivolgersi nella direzione dell’ombra, guardarla per scoprirne il volto, individuare le sembianze di ciò che col semplice rimbombo di passo riesce a distruggere la spontaneità del significato; tale persona, seppur percepisca il richiamo della fede, il canto disperato che si ostina a credere oltre l’evidenza al fatto che l’amore sia l’unica eccezione a quel passo, comunque lei sta lì, ferma, di fronte alla peste, reagendo ad essa: “nulla al mondo vale che ci distolga da quello che si ama. E tuttavia me ne distolgo anch’io, senza poterne sapere la causa”.
Rieux non può accettare l’idea dell’amore com’è quello di Dio, Tutto o Niente, e si rifiuta di amare questa creazione dove c’è la miseria poiché il suo stesso ordine è regolato dalla morte: egli può solo lottare contro il creato così com’esso è, pensando alla salute dell’uomo, e non alla sua salvezza, tentando ogni qualvolta di curare, sapendo che le vittorie saranno sempre provvisorie e che la peste è per lui un’interminabile sconfitta.
Tarrou crede che la sua morale debba essere la comprensione perché non può che vedere l’uomo nella sua interezza, nell’insieme delle sue speranze, dei suoi significati, e sa che basta un niente per fraintendere la modalità esistenziale di ciascuno; non può che vedere, e dunque, dove dilaga la peste, solo la comprensione permette di tendere verso la santità per fare quel poco di bene, donare quel poco di paradiso a chi si può capire, avendo l’unica motivazione di tale vicinanza – forse solo questa, la relazione, rende uomini – e per scoprire se si possa raggiungere la pace.
Tarrou capisce che in un mondo senza Dio, solo l’uomo ha la possibilità e la capacità di vedere l’uomo: non Dio. La santità, per Tarrou, è non poter ignorare, è non poter procedere oltre, è non poter che comprendere quali sono le speranze degli uomini.
Non poter fare altro che vedere. Seppure ci sia la peste. Perché c’è la peste.
“se si possa essere un santo senza Dio, è il solo problema concreto che io oggi conosca.”
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