Il Corvo – Edgar Allan Poe

DI EDOARDO VALENTE

Il 20 marzo del 2023 è stato pubblicato il mio primo articolo qui, su Mercuzio and Friends, in cui ho analizzato le poesie poco note di Edgar Allan Poe (puoi recuperarlo qui).

Alla fine di quell’articolo dicevo che, forse, in futuro, avrei parlato anche della poesia più celebre, The Raven.

Oggi, a un anno di distanza, quel momento è arrivato.

“Once upon a midnight dreary, while I pondered, weak and weary,

Over many a quaint and curious volume of forgotten lore –

While I nodded, nearly napping, suddenly there came a tapping,

As of some one gently rapping, rapping at my chamber door –

«‘Tis some visitor,» I muttered, «tapping at my chamber door –

Only this and nothing more.»”

A partire dai primi versi si possono già notare due caratteristiche particolari: la persistente musicalità e la forma quasi narrativa.

Ma perché – mi chiedo – questa poesia ha avuto un così grande successo, sia all’epoca, sia nei quasi due secoli che mi separano da essa?

Voglio cercare di scoprirlo.

Una prima risposta me la dà lo stesso Poe, nel suo saggio La filosofia della composizione.

In questo scritto, l’autore si pone il compito di fare quello che, a suo dire, nessuno scrittore fa: esporre chiaramente l’origine di un’opera.

Questo perché, afferma Poe, agli scrittori (e forse ai poeti ancora di più) piace dare l’idea di una spontaneità grazie alla quale nascono le loro idee. Lui, invece, non ha problemi a descriverci in che modo ha architettato la scrittura di The Raven.

Vorrebbe spiegarlo come si fa con un problema matematico, e a me questi continui tentativi di Poe di rendere estremamente razionale l’irrazionale fanno impazzire.

Inoltre, subito dopo aver affermato ciò, rovina tutto:

“Tralascerò intanto, come irrilevante per il pometto in sé, la circostanza – o, diciamo pure, la necessità, che fece nascere in me, innanzi tutto, l’intenzione di comporre una poesia che si adattasse al tempo stesso sia al gusto popolare che a quello critico.”

Ma no!

Questa frase rovina tutto quanto il suo lavoro!

Anzi.

Rovina tutto quanto il tuo lavoro!

(Ogni tanto mi rivolgerò a Edgar dandogli del tu, in un dialogo impossibile che mi concedo dopo un anno di articoli a lui dedicati).

Se prima mi dici che ripercorrerai tutto lo sviluppo di creazione della poesia, come se fosse un problema di matematica ecc. ecc., e poi mi togli la causa scatenante, che senso ha tutto ciò?

Su questo, però, ci tornerò dopo; ora conviene capire cosa si è inventato Poe per scrivere questa poesia che potesse piacere a tutti.

La parola chiave è effetto.

Poe vuole creare un forte effetto in chi legge, e per farlo ha bisogno di scrivere qualcosa che non sia troppo lungo, che si possa leggere in una sola seduta: per questo sceglie un centinaio di versi per la sua poesia (comunque, a parer mio, un po’ lunghina).

Detto ciò, qual è un effetto che può essere apprezzato da tutti?

(Edgar speravi davvero che la tua poesia fosse apprezzata universalmente?)

Tale effetto è la Bellezza.

Sì perché, ci tiene a precisare Poe, la Bellezza non è una qualità, è un effetto.

Su questo sono d’accordo.

Viene da sé che la Bellezza è il territorio della poesia. Dunque, scrivendo una poesia, Poe sa di doversi muovere nel territorio della Bellezza.

Se tutto ciò può considerarsi fino a qui logico, quanto segue lo è un po’ meno.

Poe afferma sicuro che il tono della più alta manifestazione della Bellezza è la tristezza.

Ma come?

Edgar come puoi dire che ogni esperienza ha dimostrato che il tono della più alta manifestazione della Bellezza è la tristezza?

Sono d’accordo sul fatto che “ogni genere di bellezza, nel suo supremo conseguimento, invariabilmente muove alle lacrime l’anima sensibile”, questo posso condividerlo, ma non capisco perché “la malinconia è perciò, di tutti i toni poetici, il più legittimo”.

Le lacrime di commozione non potrebbero essere di gioia?

Anche le emozioni positive possono essere forti emozioni, eppure per Poe la tristezza vince su tutto e quindi la malinconia regna.

E ora: il ritornello.

Voglio semplificare questo passaggio, perché mi fa semplicemente sorridere il momento in cui (in merito alla ricerca della parola giusta per il ritornello) Poe scrive:

“E, in una tale ricerca, sarebbe stato assolutamente impossibile tralasciare una parola come Nevermore. Essa fu, infatti, proprio la prima che mi si presentò alla mente.”

Ma pensa te che caso, proprio questa parola!

E soprattutto, con questo giro di parole, non mi stai spiegando logicamente come ciò è avvenuto, ma, anzi, stai proprio facendo riferimento ad una intuizione.

Oltre a ciò, accade qualcosa di ancora più bizzarro, perché sembra che tu stia giustificando il tuo processo a posteriori, invece di ricrearlo dall’origine.

Perché non hai semplicemente scelto di ripetere la parola Nevermore, ma hai sentito la necessità di farla ripetere da qualcuno? 

Tutto sommato, la soluzione narrativa che hai trovato è molto efficace, ma sono convinto che tu abbia prima di tutto avuto questa intuizione, e poi ci hai costruito attorno un processo logico.

Dunque, appare nella mente di Poe questo corvo, imponente, tetro, che deve ripetere la parola Nevermore.

Ripeterla a chi?

Andiamo con ordine, perché prima bisogna ancora capire quale sia l’argomento migliore di cui parlare nella poesia.

Dovendo rimanere sulla scia della malinconia, nulla risulta agli occhi di Poe più malinconico della morte.

Ma quando la morte “si allea più strettamente con la Bellezza”?

“La morte di una bella donna è indiscutibilmente l’argomento più poetico che ci sia al mondo.”

Basta, fine, non c’è altro.

E non è neppure tutto qui:

“Altrettanto fuor di dubbio, le labbra più adatte per un tale argomento non potranno che essere quelle di un amante in lutto per la sua amata.”

Eccoci arrivati a tutti gli elementi necessari per la messa in scena.

La genialità (intuitiva, non logica, ricordiamolo) di Poe si trova nel modo in cui è riuscito a combinare questi elementi.

È notte, fuori c’è una tempesta, un giovane è sveglio e nel buio della stanza legge e cerca di dimenticare il dolore per la amata che ormai si trova insieme agli angeli.

Poi, arriva un rumore, e cos’è? Il corvo, che entra nella stanza, e ripete quell’unica parola, sempre uguale: Nevermore.

Il giovane, allora, sorpreso dalla situazione, fa delle domande al corvo, pur sapendo già che quella è l’unica risposta che può dare.

Sentite che cosa ha da dirci Poe in merito:

“E le porrà, tali domande, non certo perché creda alla natura profetica o demoniaca dell’uccello (che, come la ragione lo rassicura, non fa che ripetere una lezione macchinalmente appresa), ma perché prova un parossistico piacere nel formulare le sue domande in modo da ricevere dall’«atteso» Nevermore il dolore più delizioso proprio perché più insopportabile.”

Il dolore più delizioso proprio perché più insopportabile.

Ecco fatto: Edgar riesci a vincere sempre.

Mi spiego meglio.

Come per tutti gli autori, le opere possono essere apprezzate a più livelli, e per me aver approfondito la maggior parte delle opere di Poe significa creare quella rete di senso che unisce molti punti, che crea una poetica.

Non mi interessa più la sua autoanalisi fatta ne La filosofia della composizione. L’ultima cosa che ho da dire in merito a quel saggio è che ti sbagli Edgar a dire che la forza di The Raven è l’originalità. Non è così originale, anzi, è esattamente come il Nevermore, è qualcosa che ci si aspetta e che si desidera proprio perché si sa cosa aspettarsi, che tipo di malinconia aspettarsi.

Però questa c’è inequivocabilmente. L’effetto è reso benissimo.

Anzi, gli effetti, perché prima di tutto tu crei un’atmosfera, e poi all’interno di questa atmosfera, in mezzo a versi estremamente verbosi, riesci a infilare l’effetto. 

Quando Poe dice che l’argomento più poetico al mondo è la morte di una bella donna, sta da un lato attingendo ad una cultura comune, ben radicata, ma dall’altro lato ci sta mettendo sé stesso.

Chiunque soffrirebbe per la morte della persona amata, specialmente se ciò accade in giovane età, e questo è un sentimento di dolore collettivo, condivisibile.

Per Poe è anche un tema ricorrente.

Accadde già a quindici anni: si era infatuato della giovane madre di un suo compagno di scuola, che morì. A lei è dedicato il sonetto To Helen, in cui il romanticismo dell’adolescenza fa sì che la figura di quella donna si mescoli con immagini di un antico splendore idealizzato.

Ma quello stretto rapporto che lega amore e morte è sempre presente.

Continua a essere presente nella poesia di Poe, e nella sua vita.

In questo senso, The Raven può considerarsi un punto d’arrivo, sia esistenziale che artistico.

Ma non è solo per questo che ha un così grande valore, ma per quell’effetto di cui ho parlato.

Alle persone dell’epoca piaceva moltissimo sentire lo stesso Poe leggere la poesia, creando un’atmosfera lugubre e cupa.

Eppure, quel proponimento di Poe, ovvero di piacere sia al gusto popolare che a quello critico, non sembra riuscito così bene. Sembra che abbia avuto molto più successo tra il popolo che nella critica.

Io che un critico non sono, cercando però di analizzare oggettivamente il testo, non lo ritengo così perfetto come lo descrive Poe nel suo saggio. Ma a colpirmi è altro, è la musicalità delle parole, quella geniale ripetizione del Nevermore, l’immagine del corvo che, come al solito, non dice qualcosa di sé ma di noi.

Il corvo è semplicemente un uccello sfuggito a una tempesta, che ha imparato quell’unica parola; noi, in questo, siamo in grado di vedere un uccello del malaugurio e attorno a quella sua parola generiamo la nostra autodistruzione.

Ecco perché dico che Poe ha vinto anche questa volta.

Hai vinto Edgar.

L’effetto funziona. Anni di allenamento a scrivere racconti che devono colpire il lettore a tutti i costi, che devono tenerlo incollato alla pagina, hanno anche portato a questo.

Penso che The Raven abbia infine riscosso un così ampio successo perché, come le grandi opere, ha più livelli di lettura, può colpire più sensibilità e in qualche modo riesce a essere universale.

Anche quelli che la prendevano in giro, che ne hanno fatto delle parodie, in fondo, la stavano omaggiando.

Anche io, che quando l’ho letta le prime volte non l’ho apprezzata, in fondo, con il giusto tempo e la giusta attenzione, sono riuscito a comprenderla.

Edgar, mi rivolgo un’ultima volta a te.

Quella che ho fatto non è stata un’analisi, ma un omaggio. E per quanto io non ti abbia mai criticato così tanto come in questa occasione, questa non è nient’altro che una lode a te.

Non ti hanno pagato nulla per questa poesia, ma la gente ti chiamava “Mr. Raven”, e voleva sentirti leggere i tuoi versi, e tu stesso hai scritto che eri povero, ma non di speranza.

Eccola qui concretizzata, la tua speranza.

Ancora oggi si associa a te l’immagine del corvo, e si leggono i tuoi racconti, e si studiano le tue parole, e si parla di te.

Nessuno potrà ridarti la vita che non hai vissuto, che ti è stata sottratta dalla povertà, che ti sei sottratto con le dipendenze. Così come nessuno potrà mai ridarci quello che tu hai dato a noi.

L’unica certezza che posso offrirti, e offrirci, è che non ti dimenticheremo.

È il caso di dirlo: non ti dimenticheremo Nevermore.

 (La statuetta di Edgar, con la quale ho dialogato durante la stesura dell’articolo)

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