Habemus Capa (Caparezza)

DI ELODIE VUILLERMIN

Il nostro genio musicale torna a colpire. Con questo album si supera, diventa un fenomeno che meriterebbe di essere studiato a fondo nelle scuole. Non si può ascoltarlo e basta, va compreso.

L’album Habemus Capa, del 2006, si può considerare una continuazione del precedente. Jodellavitanonhocapitouncazzo, infatti, si chiudeva con la frase “quanti dischi venderanno se mi spengo”, a cui seguiva un collasso. Il tema centrale è proprio la morte dell’artista, che vive sotto forma di spirito e osserva il mondo intorno a sé parlando attraverso un corpo diverso per ogni brano, per poi rinascere completamente ad album concluso. Caparezza lo definì “il suo disco più politico”.

Con un campionamento dell’ultimo verso del brano di chiusura di Verità supposte, ecco Mors mea tacci tua, l’intro di questo disco, ottima combinazione del latino mors tua vita mea e dell’espressione dialettale “li mortacci tua”. E subito dopo comincia il viaggio spirituale di Caparezza. In Annunciatemi al pubblico viene trasportato il suo cadavere. L’artista si immagina i commenti del pubblico al funerale, che traviseranno la sua vera natura e interpreteranno nel modo sbagliato le sue canzoni. Alcuni crederanno addirittura che Fuori dal tunnel fosse una metafora del tunnel della droga. Spera che lo seguano nel regno dei morti e invece lo insultano, a riprova di quanto la società sarà sempre deludente per il Capa, in un modo o nell’altro.

Nel brano successivo, Torna Catalessi, Caparezza è nei panni del padrone di un cane che è scappato via, e cerca di riaverlo indietro: non a caso il titolo è un gioco di parole che cita Torna a casa, Lassie!, il film sul celeberrimo collie. Perché? Il cane è lo stato di immobilità, di catalessi per l’appunto, a cui bisogna tornare per frenare il subbuglio dello shopping selvaggio. Ecco che la canzone si trasforma in una critica al consumismo e alla frenesia che esso ha generato nella società. Piuttosto che comprare sempre più prodotti perché istigato dalla pubblicità, piuttosto che alimentare l’industria degli eccessi, Caparezza preferisce tornare a uno stato di immobilità, quasi di morte apparente; raggiungere quella pace e quella serenità che (leggenda vuole) avrebbe visto negli occhi del suo cane, Holly, che sembra gli abbia dato l’ispirazione per questo pezzo.

Arriviamo in seguito a quella che considero la punta di diamante di questo album: Gli insetti del podere, una delle satire più feroci e geniali al tempo stesso, dove i politici e altre figure parassitarie agli occhi dell’artista (qui in veste di entomologo) sono paragonati a insetti. Perfino l’intro è in tema e si sente il ronzio delle mosche in sottofondo. Caparezza critica fortemente Berlusconi (qui chiamato “il ragno”), la collaborazione con Bruno Vespa che “gli concede l’alveare”, il suo pessimo governo in cui parlava del nulla più assoluto e viveva nel lusso sfrenato. Ma non solo. Si scaglia contro la Lega (la mosca verde) e le sue politiche nei confronti degli immigrati (lasciati a morire in mare, come mosche tze tze scaricate nel water), la polizia (formica nera) che picchia i comunisti (formica rossa), i giornalisti (bruchi benestanti) che provano a farsi belli per ingraziarsi i potenti (“pagano crisalidi per ali di farfalla”) e molti altri. La rabbia più forte è contro i politici: grandi e potenti all’apparenza, ma in realtà piccoli e insignificanti, così assenteisti da risultare inutili, dalle vite piatte, bugiardi patologici e seduttori di donne.

In Dalla parte del toro Caparezza si reincarna nel corpo di un toro e ne rappresenta lo scontro con un torero. Il tutto è una grande metafora dello scontro tra il popolo onesto e ragionevole e gli uomini di potere che opprimono i deboli e gli indifesi. Ma alla fine il toro si ribella all’uomo, stufo di tutti i maltrattamenti, e le posizioni si invertono: lo stesso dovrebbero fare tutti i cittadini contro le autorità spregevoli che li dipingono come uomini “di cultura debole”. E, nel momento in cui il matador è infilzato, chiede aiuto come un codardo, rivelando chi è quello realmente debole nell’arena. Raffinati sia la scelta del titolo, gioco di parole con l’espressione “dalla parte del torto”, sia i versi della prima strofa che fanno tutti rima in “ole”, in riferimento al grido che fanno i toreri durante la corrida quando schivano l’attacco del toro. Un gioiellino che ti conquista, anche dal punto di vista musicale.

Passiamo a Ninna nanna di Mazzarò. Ora nel corpo di una badante, Caparezza canta una ninna nanna a un bambino per metterlo in guardia da Mazzarò, in riferimento al personaggio di una novella di Verga (La roba) che ha accumulato beni di ogni genere per tutta la vita, solo per avidità e ingordigia, e che per questo ha perso la ragione. I Mazzarò dell’era moderna, da cui dobbiamo guardarci fin da piccoli, sono quelli della classe dirigente e industriale. La canzone, fatta per addormentare, in realtà invita i bambini a restare svegli e attenti a queste figure corrotte e incontentabili, o si verrà derubati di tutto, perfino di sé stessi.

Il silenzio dei colpevoli, in un rovesciamento del film Il silenzio degli innocenti, vede l’artista nei panni del proiezionista di un film che fa vedere la propria vita a una persona che ha sempre deciso di tacere, soprattutto su azioni discutibili, come quando ha nascosto l’amante alla fidanzata o non ha denunciato un pestaggio. In sottofondo, il rumore di un proiettore. Il gesto è un invito a esprimere senza paura le proprie idee, a parlare delle malefatte altrui, altrimenti il silenzio asseconda i potenti e gli oppressori, equivale a essere loro complici (“Chi tace soggiace alla volontà del loquace”). Invece oggi tutti sembrano fare il contrario, preferiscono l’omertà e perciò sono più vulnerabili ( “I timori hanno timoni deboli”).

Segue Profilo psichico, un breve intermezzo che, a detta dell’artista, “introduce le riflessioni sulla diversità”. La prima di queste riflessioni è La mia parte intollerante, una storia contro il bullismo. Caparezza si reincarna in uno studente delle superiori, diverso dallo stereotipo di maschio alfa e con interessi diversi dalla massa, e ne racconta le difficoltà a integrarsi in un mondo di adolescenti superficiali, violenti, modaioli (forse una citazione al giovane sé stesso). Ma quello studente, in realtà, non ha voglia di integrarsi con gente così prevedibile. Non si riconosce nei suoi compagni, che spesso cadono in noiosi cliché. Per questo ha dentro di sé quella parte intollerante, quel disgusto verso la gente mediocre. È quel lato violento che soprusi e prese in giro portano alla luce e potrebbero portarlo a ribellarsi contro i bulli. Un lato che cerca di sopprimere, ma che inevitabilmente salterà fuori. E quando succederà, per i bulli saranno cavoli amari.

Passiamo poi a Inno verdano e ritroviamo Caparezza nel corpo di un uomo del Sud Italia convertito alle idee della Lega Nord, con la sua inconfondibile bandiera verde. E il rapper critica proprio quest’ultima, prima con ironia, in seguito con più amarezza. Difende i “terroni” di cui egli stesso fa parte dai pregiudizi che la Lega ha verso di loro. Si scaglia contro le idee militariste del partito, le discriminazioni contro i diversi e gli immigrati, l’ignoranza dei suoi membri, i loro pensieri retrogradi (tra pulizia etnica e desiderio di separarsi da “Roma ladrona”). Scimmiotta persino l’inno padano: “Espelli il negron, inforca il terron”.

Prossima reincarnazione di Caparezza: il corpo di un ragazzo ingenuo che dialoga con un uomo colto e pessimista. È su questo confronto che si basa l’intero testo di Epocalisse, con il primo interlocutore (dalla voce acuta e scanzonata) che esalta la società moderna e le sue conquiste in campo tecnologico (da Google alla pay tv, da Java alla scuola online), mentre il secondo (con un tono più profondo e roco) cerca di aprirgli gli occhi sulle varie disgrazie avvenute negli ultimi anni (guerre, catastrofi naturali, bombe nucleari). Entrambi dichiarano che “questo secolo sarà la fine del mondo”, intendendo due cose totalmente opposte: uno continua a negare la cruda realtà e si rifugia nelle sue distrazioni tecnologiche, l’altro insiste che proprio quelle innovazioni tanto esaltate porteranno a una nuova catastrofe. Già questo è un colpo di genio, quasi quanto il ritornello, in cui il ragazzo pro-tecnologia grida “Yahoo!”, urlo di giubilo e servizio di posta elettronica al tempo stesso.

Dopo Tii-yan, un altro intermezzo di natura solenne e orchestrale, eccoci nella sezione del disco dedicata alla televisione. A introdurla è The auditels family, dove Caparezza parla da dentro un meter dell’Auditel, un contatore elettronico che rilevava il numero di ascolti in tv, ritenuto controverso perché manipolava gli ascolti e quindi i palinsesti televisivi. È la seconda critica all’età dei “figuranti”, quella che secondo l’artista ci sta togliendo la democrazia. Si ipotizza l’esistenza di una famiglia (come gli Addams) che premia programmi scadenti e butta via quelli di qualità, “una setta diabolica che decide laconica tutto ciò che si colloca nella sfera catodica”. Se prima avevamo lottato tanto e sacrificato vite per il diritto al voto, ora il massimo della democrazia è il voto nei reality show. La base musicale è un vero e proprio omaggio all’horror umoristico.

Segue Ti giri, una satira sui telegiornali odierni che passano più notizie inutili e manipolate che fatti di cronaca seria o notizie di disastri naturali, condotta ovviamente da dentro il corpo di un presentatore di TG. Alla fine la verità è meglio se te la cerchi da solo, guardandoti in giro piuttosto che guardando la tv. Eccezionali i giochi di parole che il Capa tira fuori in certi versi, da “Lavate di capo che manco il Baby Shampoo Johnson” a “Noti notizie, ma non noti nulla”. Mentre in Titoli l’artista, nei panni di un broker, si sfoga contro quell’economia che concentra gran parte del potere nelle mani di una minoranza e opera contro gli interessi della maggioranza. Come spiegato nel suo libro Saghe mentali. Viaggio allucinante in una testa di capa, l’intento è di lasciare il lettore confuso e a bocca aperta come davanti alla rubrica Borsa flash di Paolo Trombin. Perciò ti scaglia addosso una sequela di termini da broker senza alcun criterio logico.

Felici ma trimoni, un altro dei brani migliori, vede Caparezza nei panni di un prete che celebra il matrimonio tra due vip. Un’aspra denuncia contro quei matrimoni tra celebrità o personaggi in vista, fatti più per interesse economico che per amore, spesso appariscenti e all’insegna del glamour esagerato. Cerimonie che oltretutto non servono a niente, perché spesso queste coppie celebri sono destinate a litigare e separarsi in pochissimo tempo. Insomma, un matrimonio inutile e idiota (“trimoni”, in dialetto barese, significa appunto “stupidi”). E il prete lo sa, non a caso dichiara fin da subito “Vi sposerò, ma già so che sarete come Remo con Romolo”. Segue l’ultimo intermezzo, Sssaasss, descritto come “l’epilogo della follia” dallo stesso Capa.

Nel brano successivo, Sono troppo stitico, l’artista si reincarna in Norman Bates, che cerca di uccidere la sua ragazza con mezzi “legali” e ha più di un modo per farlo (dagli psicofarmaci all’amianto), tanto nessuno sospetterà mai di lui. Il tutto è, probabilmente, un’allegoria delle fabbriche che mietono vittime tra gli operai, un tema che sarà ripreso magnificamente nell’album successivo con la traccia Vieni a ballare in Puglia. Con la canzone finale, che porta il titolo dell’album intero (Habemus Capa), Caparezza non si reincarna più. Risorge completamente. Si paragona prima al papa, poi a Gesù. Ironizza inoltre sul suo passato artistico e sul suo vecchio alter ego, Mikimix. Un ritorno in grande stile che conclude degnamente questa avventura.

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