DI ALBERTO GROMETTO
Non so se avete mai fatto un calcolo, o un conticino, di quanti sono i momenti brutti che avete vissuto nella vostra vita rispetto a quelli belli; se vi siete mai messi a enumerare ed elencare quante sono state le cose belle che avete vissuto con QUELLA persona e quante le cose brutte. Io son convinto che nove su dieci di voi tutti, dai più ingenui ottimisti fino a passare per i pessimisti più incalliti, ve ne uscireste dicendo che il brutto e il cattivo della vita sono la maggioranza. E stiamo parlando proprio di momenti di vita vissuta insieme a un certo qualcuno, dato che di solito è sempre per un “qualcuno” che ci mettiamo a fare conti di questo tipo.

È l’Essere Umano, che ci volete fare?
L’Umano – oramai è chiaro – tende a ricordarsi sempre meglio e con maggior intensità del brutto e del cattivo che ha vissuto nella Vita rispetto al bello e al buono che vi ha trovato. Specie se poi ripensa a quanto vissuto con il suo “Qualcuno”. Perché passare così tanto tempo con Qualcuno con cui si è sofferto e basta? Forse avrebbero sofferto anche da soli? Oppure si sarebbe stati meglio? Magari l’uno è stato causa del dolore dell’altro? O quel dolore sarebbe arrivato comunque? Quale che sia la risposta, ha senso trascorrere tanto tempo con Qualcuno che la Felicità non ce la può dare né potrà mai darcela? Che magari è la ragione addirittura per cui quella Felicità non potremmo mai averla. Soprattutto, poi, se la Felicità ci è preclusa in ogni caso?
Maggie e Brick hanno certamente più sofferto che altro. A dire il vero quell’“altro” non saprei neanche immaginarmelo. Nell’arco della storia, che ci viene raccontata con la solita magistrale abilità e con sublime talento assolutamente affascinante che contraddistinguono la penna immortale del Maestro e drammaturgo teatrale TENNESSEE WILLIAMS, moglie e marito sono infelici, arrabbiati, tristi, delusi, frustrati, sofferenti. Lei vorrebbe Lui. E Lui vorrebbe… qualcuno che non c’è più. Lui non dà a Lei la sua Felicità, quella di Maggie, che sarebbe l’amore di Brick. Né gliela può dare. Lei – volente o nolente o entrambe le cose – è il motivo per cui la Felicità di Brick è stata a Lui sottratta.

Sulla carta due sposini freschi freschi di matrimonio che dovrebbero essere in procinto di sfornare figlioli, ma in realtà sono ben altro. Lui è un alcolizzato perso, cattivo e freddo e distante con chiunque, represso e sofferente, che si piange addosso perché non ha quello che aveva un tempo e che era ciò per cui era felice. Che sia magari il mestiere da cronista sportivo, perso perché un ubriacone attaccato alla bottiglia? Che sia forse la carriera sportiva, buttata nel cesso per via di un incidente alla caviglia? Che sia invece… Skipper? Sì, Skipper, il suo amico fraterno, il suo compagno di strada, colui che amava… più di chiunque altro. Lei è una poveraccia che ora si è “sposata bene”, che ha i soldi, che è ricca… ma a che le servono se colui che ama più di chiunque altro la mal sopporta, non la tollera, la detesta e… e forse la odia? Se Skipper non è più, c’entra lei. O no?
Quella de «LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA» è una vicenda d’una drammatica cupezza e un’irresistibile quanto dolorosissima forza discendente che ti trascina nei profondi recessi e obbrobriosi meandri della psiche umana, delle sporche relazioni malate che esistono tra gli Umani, della sofferenza fatta di rimpianti e nostalgiche malinconie struggenti che caratterizzano ognuno di Noi e che ci fanno chiedere: Come sarebbero le cose SE…

Che parola orribile, una sillaba da cui bisognerebbe sempre scappare, due lettere che non servono niente a nessuno! Se non a far soffrire. Se le cose fossero andate in questo modo, come sarebbe la mia vita? Tanto non sono andate in questo modo!, quindi che te lo chiedi a fare?
Se Skipper fosse ancora vivo, come sarebbe la vita di Brick?
Se Brick amasse Maggie, come sarebbe la sua vita?
Se il padre di Brick non fosse malato terminale di cancro, cosa avrebbe ancora potuto fare?
Se Brick non fosse mai nato, come sarebbe stata la vita di Gooper, il fratello maggiore di Brick, e che è sempre stato il meno amato, che ha sempre fatto come volevano i genitori senza avere mai neanche un’oncia del loro amore, che addirittura ai genitori non è piaciuto… che tipo di vita avrebbe avuto?
Se Maggie e Brick non si fossero mai incontrati e sposati, non sarebbero stati meglio? Non sarebbero stati felici? Non ci sarebbe ancora Skipper?
Ad una rappresentazione teatrale tanto indovinata e riuscita e parlante, come quella a cui una delegazione della nostra Redazione ha avuto l’onore e il piacere e il privilegio di assistere presso il TEATRO CARIGNANO DI TORINO, capace di assumere su di sé tutta la forza di un testo del genere — un gancio dritto dritto nello stomaco — e restituirtelo attraverso la messinscena e il lavoro attoriale-interpretativo e l’uso di musiche e oggettistica e scenografie, non si può che applaudire. Dico davvero: lascia senza fiato in corpo la regia di un veterano del Teatro quale LEONARDO LIDI, capace come pochi altri in questo Paese – e forse nel mondo – di interpretare pienamente una drammaturgia teatrale con la solita sensibilità disarmante e profondità commovente che caratterizzano ogni suo lavoro.

Una scenografia quasi spoglia, grigia. Come spoglie di felicità e benessere e pure ideali sono le grigie vite dei protagonisti. Uno specchio che all’occorrenza può fungere da doccia, porta d’ingresso, muro, viene portato di qua e di là in scena nel corso dello spettacolo, ma quel che è interessante è che è uno specchio, il cui destino è specchiare la trista e desolante realtà dei personaggi che quello spettacolo lo abitano. Un uomo, muto e assente, ma in realtà costantemente onnipresente, a simboleggiare l’irrefrenabile sensazione d’oppressione invincibile e schiacciante del peso del ricordo di chi abbiamo amato. Anche se forse poi magari non era questo granché, ma quando si ama queste cose non hanno importanza. Quell’assente ma sempre presente è Skipper, e solo Brick lo può vedere nel mentre che parla con gli altri. E Skipper, che avrà pure lasciato il Mondo ma non Brick, va costantemente avanti e indietro portandogli bottiglie. E Brick le beve, le beve tutte, le beve fino all’ultima goccia, e non si fermerà fino a quando il suo cervello “non avrà fatto click”, qualsiasi cosa significhi. Lui beve per non pensare. E nel frattempo però le bottiglie vuote si accumulano sul palcoscenico, una dopo l’altra, sempre di più, riempiendo a poco a poco l’intera scena, a decine di decine di decine, al punto che i protagonisti quasi ci inciampano nel mentre che recitano. Quello stesso palco sul quale valanghe di palloncini cadranno dall’alto copiose, perché è una festa di compleanno quella a cui siamo stati invitati, il compleanno del papà, quello di Brick.

Ma festeggiare… cosa? Che il padre sta morendo? Che questi non ha mai amato la moglie e madre dei suoi figli? Che odia il figlio maggiore? Che ha schifo di chiunque attorno a lui, tranne che del suo Brick? Che Gooper e consorte vorrebbero far internare Brick per tenere per loro l’intera fortuna paterna, e nel mentre non dimenticano mai a Maggie che lei e il marito ancora non hanno manco l’ombra di un figlio all’orizzonte (per forza!, se manco dormono da una vita e mezza nello stesso letto)? Festeggiare che una parte di Brick vede nella moglie, che non considera una moglie, la ragione per cui non ha più il suo Skipper? Festeggiare che Maggie sta accanto ad un uomo che la ritiene meno di niente, immondizia, quando lei non vorrebbe che esserne amata? Per una riunione di famiglia, io credo, dovrebbe quantomeno esserci una cosa: la famiglia. Ma questa, mi chiedo, è una famiglia? O è solo gente che sta insieme a soffrire e a farsi soffrire a vicenda?

Un plauso fragoroso e uno strepitoso applauso spettano ad un cast attoriale che è un capolavoro, che definire di prim’ordine sarebbe riduttivo. Da quel pagliaccesco buffone del reverendo impersonato da un inarrestabile strapparisate NICOLÒ TOMASSINI, passando per un’eccezionale GIULIANA VIGOGNA capace di incarnare tutta la fastidiosità gretta e piccola del personaggio di Mae e che di Brick e Maggie è la cognata, fino ad arrivare ad un’ORIETTA NOTARI degna di essere definita un mostro di bravura, ad ogni performance ancor più che prima, e che qui ci restituisce il ritratto d’una donna ingenua e disperata che si sforza di essere felice quando non ha alcun motivo per esserlo, la matriarca della famiglia, moglie di un marito che non la sopporta, madre di due fratelli che s’odiano e suocera di due nuore che sembra la vogliano sfruttare per i propri tornaconti personali. Tutti quanti assolutamente perfetti e completamente indovinati per la loro parte, financo l’inquietantemente assente/presente nonché muto Skipper rappresentato da RICCARDO MICHELETTI e l’orribilmente molesta e insopportabilmente irritante figlioletta di Gooper e Mae portata in scena dalla giovanissima GRETA PETRONILLO, a cui vanno complimenti dei più grandi possibili!
E citiamo ancora GIORDANO AGRUSTA, che commuove nell’incarnare il pietoso personaggio di Gooper, il figlio di cui entrambi i genitori farebbero volentieri a meno, il fratello dimenticato, quello che non è l’amato e adorato Brick, colui che si è dovuto impegnare per avere la stima dei suoi, e che tanto non ha né avrà mai. Sembra uno di quelli che si fa comandare dalla moglie, che vuole i soldi del padre, che è senza affetto… ma la verità è che lui affetto non ne ha mai avuto, e che era la sola cosa che davvero avesse mai desiderato. Lui, che ha demolito la sua vita per piacere al padre, e al quale tanto non piace in ogni caso. Che compassione penosa.

E citiamo un sensazionale NICOLA PANNELLI in stato di grazia, direi anzi semplicemente leggendario!, nel dar vita ad un uomo buffo e insieme tragico, ironico ma d’un sarcasmo pungente che non risparmia nessuno, con quasi nessuno scrupolo eppure contraddittoriamente caratterizzato anche da una sofferta umanità viva: il padre della famiglia, quello che ha passato tutta la vita a realizzare grandi imprese, ma che ora che ha finito i suoi giorni qui su questa Terra deve essere messo di fronte alla cruda realtà di non aver realizzato la cosa più importante di tutte, la sola che contava: una famiglia. Ha in odio quasi chiunque (a parte Brick), sbraita a tutti in faccia che fanno schifo e la cosa che davvero vorrebbe è vivere… ma non sempre puoi avere ciò che desideri. Lui è segnato, ma segna anche tutti Noi: le risate maggiori, insieme pure ad alcuni momenti particolarmente tragici, hanno a che fare con quell’uomo!

E ancora, nei panni di un Brick tutto proiettato verso l’autodistruzione e tutto concentrato sul suo dolore, un fenomenale FAUSTO CABRA che barcolla, straparla, urla, grida, soffre e attraverso una performance incredibile, respingente e attraente al tempo stesso, rende tutti noi partecipi di un dolore universale, quello che proviamo quando qualcuno se ne va. Anche se quel Qualcuno non se ne andrà mai via, in realtà. Ed è così anche per il suo Brick, abbandonato ma non del tutto, perché Skipper, il suo amore, è ancora lì, con lui, sempre e per sempre. A ricordargli cosa lui stesso ha fatto, o meglio, NON ha fatto. Quando invece avrebbe potuto. Un tormento eterno e insieme una malinconica pena dolce: stare in eterno con la persona oggetto di tutti i tuoi dolori come di tutto il tuo amore, anche se non c’è più. Anche se non ci sarà mai più.

E poi lei, la gatta sul tetto che scotta, la Maggie di una sovrumana VALENTINA PICELLO, talmente brava da cancellare altre interpretazioni precedenti (e ricordiamo che Maggie fu impersonata da una diva come Elizabeth Taylor!): il calore umano straziato e straziante di una donna che lotta da tutta la vita, contro la povertà e il dolore e le cattiverie, e che ancora adesso si ritrova a lottare, come una gatta che non trova pace nel riposarsi su di un tetto rovente, che scotta per via del sole cocente, ma che quel tetto non lo lascia, non l’abbandona, ci rimane attaccata anzi con le unghie e con i denti, a costo di morirci. Performance del genere son quelle che rimangono impresse tutta la vita, ti si attaccano al cervello come… come un gatto su un tetto.


Non posso che applaudire di fronte ad una rappresentazione tanto bella quanto questa qua, targata TEATRO STABILE DI TORINO – TEATRO NAZIONALE e TEATRO STABILE DEL VENETO – TEATRO NAZIONALE.
È da più di 70 anni (71, per fare i precisini) che va in scena nei teatri del mondo la struggente e devastante opera di Tennessee Williams.
È da quasi 70 anni (67, per fare i precisini) che tutti conoscono e ammirano la versione cinematografica a firma di RICHARD BROOKS (sempre straziante, ma più edulcorata dato i tempi) e con due colossi della recitazione quali la vulcanica e già citata ELIZABETH TAYLOR e l’esplosivo PAUL NEWMAN.


È da meno di un mese, nel momento in cui scrivo questo articolo, che ho assistito a questa strabiliante messinscena che m’accompagnerà, quasi come chi ci ha abbandonati accompagnerà sempre chi rimane, in eterno.
Oggi, nel giorno in cui questo articolo viene pubblicato, ricorre un compleanno che in questo caso sì che merita di essere festeggiato e celebrato e omaggiato: quello del TEATRO STABILE DI TORINO, che compie 70 anni tondi tondi. Era il 27 MAGGIO 1955, quello fu il giorno della sua fondazione. E a cui vanno i miei più fragorosi ringraziamenti, miei personali oltre che a nome dell’intero Comitato di Redazione, per la gentilezza affettuosa che sempre usa nei nostri riguardi, e per regalarci serate così meravigliose e indimenticabili, come quella in cui andai a vedere «La gatta sul tetto che scotta», con la regia del Maestro Leonardo Lidi.
E, a dire il vero, oggi si celebra un’altra ricorrenza che per me ha un valore di portata inestimabile: i 30 anni di matrimonio dei miei genitori. Era il 27 Maggio 1995 quando convolarono a nozze, io sarei nato un lustro e poco più dopo.
Mamma, Papà: questo articolo è dedicato a voi due, voi che per me rappresentate l’esempio opposto di quello incarnato da Maggie e Brick. Sì, perché voi due avete avuto e subito la vostra dose di dolori e sofferenze nella vita, proprio come loro due. Come tutti noi. Ma la vostra forza, indomita e coraggiosa, l’avete sempre ricercata e soprattutto trovata l’uno nell’altra. Ed è così che vi siete costruiti la Felicità. E che va preservata e costruita pezzo per pezzo, ogni giorno, tutti i giorni. Per questo è così difficile. Ma voi essere felici lo fate sembrare così facile, soprattutto per me, quando sono insieme a voi. Perché è stare con chi si ama, ogni giorno, a dispetto di incomprensioni e difficoltà, che ti può davvero far essere felice. È l’Amore il dono più grande che abbiamo. E questo me lo avete insegnato voi due. E insieme a voi, il brutto e il cattivo spariscono, scompaiono!, manco esistono. E in me e nella mia Vita e nella mia memoria restano solamente il bello e il buono. Che è ciò che voi siete per me: Amore e Felicità.
Buon 30esimo anniversario, a voi due così come a me.

