Il cristallo – Heinrich von Kleist

DI EDOARDO VALENTE

Ho scoperto che Kleist ebbe una crisi data dalla lettura di Kant, anche se pare che in realtà la crisi fu a causa della sua errata interpretazione di ciò che aveva letto.

Ma non importa. In fondo è solo di questo che abbiamo bisogno: una chiave d’accesso per capire la realtà. Può anche arrivare dall’errore, dall’incomprensione. Alla fine, l’unica cosa che conta è ciò che capiamo perché ci colpisce nel profondo, perché ci rivela qualcosa che era già presente in noi, ma che non era ancora emerso. Non serve sapere altro”.

Questo è ciò che mi ero annotato dopo essermi imbattuto nell’infelice vita di Heinrich von Kleist.

E la sua, di vita, è tanto tragica quanto esemplare: ci aiuta a comprendere la condizione umana

Kleist è stato tanto infelice e tormentato poiché ciò che cercava di più nella vita era la felicità.

Erede di una nobile famiglia prussiana, molto famosa nel mondo militare, a soli quindici anni, rimasto orfano, si arruola nell’esercito, fino ai ventidue anni.

Poi, chiesto il congedo, decide di dedicarsi allo studio, poiché si convince che così potrà avere gli strumenti necessari per la realizzazione del suo “progetto di vita”.

Tale progetto aveva un unico, grande, obiettivo: il raggiungimento della felicità.

Per riuscirci, Kleist ha tentato di tutto: la carriera militare; gli studi universitari; il lavoro burocratico; i continui spostamenti dalla Germania alla Francia e all’Austria; due anni di fidanzamento; la fondazione di un giornale; la scrittura di opere drammatiche.

Ma il primo ostacolo arriva con la “crisi kantiana” citata all’inizio.

Prima di quel momento credeva di potersi realizzare essendo padrone del proprio destino, utilizzando la cultura e la scienza per controllare la realtà attorno a sé. E quella per il controllo era, in realtà, una vera ossessione.

A ventitré anni si fidanza con Wilhelmine von Zenge, alla quale scrive delle lettere che sono state definite “pedagogiche”, ma nelle quali cerca a tutti gli effetti di educare la sua futura moglie alla loro vita coniugale.

È proprio a lei, però, che scrive di questa sua crisi.

Il pensiero che su questa terra non sappia niente, assolutamente niente della verità, che ciò che qui chiamiamo verità si chiama dopo la morte del tutto diversamente e, per conseguenza, lo sforzo di acquistare una proprietà che ci segua anche nella tomba è in tutto vano e sterile, questo pensiero ha dato una scossa al sacrario della mia anima: il mio unico e più alto scopo è crollato, non ne ho più alcuno.

Nel 1802, a venticinque anni, dopo che Wilhelmine si è rifiutata di trasferirsi con lui in campagna e vivere dei frutti della terra, Kleist rompe il fidanzamento.

Con lei sentiva di non poter trovare la felicità, per quanto il suo fosse un obiettivo irraggiungibile.

Da qui nasce, però, un’altra folle ambizione: voler diventare il più grande poeta tedesco.

Per riuscirci si dedica alla scrittura di drammi teatrali, che ricevono anche l’ammirazione di personalità autorevoli quali Wieland, e sembra che possano addirittura smuovere positivamente i grandi Goethe e Schiller.

Ma Kleist, come tutti coloro che perseguono follemente le loro ambizioni smisurate, non è soddisfatto del proprio lavoro, arrivando anche a bruciare una delle sue opere; per poi tentare di riscriverla a memoria.

La sua irrequietezza spirituale lo porta a spostarsi costantemente, con l’amata sorella Ulrike e con un amico, Ernst von Pfuel. All’amico Kleist chiede di suicidarsi insieme, ma il suo rifiuto sfocia in un allontanamento, e il poeta deluso medita di arruolarsi tra le fila dell’esercito napoleonico, nonostante lo detestasse fortemente.

Infatti, è proprio contro Napoleone, e a favore della Germania, che fonda un giornale patriottico che avrà un grande successo, grazie all’introduzione di notizie di cronaca nera – molto rare all’epoca – così come altrettanto apprezzati saranno i racconti scritti da Kleist al suo interno.

All’inizio del 1811, dopo pochi mesi dalla fondazione, il giornale viene censurato, e poi è costretto a chiudere definitivamente.

Ci si introduce così nell’ultimo periodo di vita di Kleist.

A trentatré anni può contare nella sua vita: una carriera militare abbandonata; degli studi che invece di portarlo alla verità l’hanno condotto alla disperazione; un fidanzamento fallito; alcune opere teatrali, alle quali aveva dedicato grandi energie e aspettative, che non vengono apprezzate; un giornale distrutto dalla censura.

Così come aveva fatto con l’amico Pfuel, anche alla cugina Marie von Kleist aveva chiesto di suicidarsi con lui, ma anch’ella aveva rifiutato.

A lei, pochi giorni prima di morire, scrive:

Le tue lettere mi hanno straziato il cuore mia carissima Marie, e se ne avessi avuto il potere, ti assicuro che avrei rinunciato alla risoluzione che ho preso di morire. Ma, te lo giuro, mi è assolutamente impossibile continuare a vivere; la mia anima è a tal punto ferita che, mi vien quasi da dire, quando mi affaccio alla finestra anche la luce del giorno mi ferisce”.

E una persona che accettasse di morire con lui Kleist l’aveva trovata.

Si tratta di Henriette Vogel, una sua amica che sapeva di essere malata di tumore, e che preferisce farsi uccidere da Kleist che dalla sua stessa malattia.

Di Henriette lui scrive che “comprende che la mia è una tristezza superiore, saldamente radicata e inguaribile”, per questo lei “per amor mio, abbandona un padre che la adora, un marito che era abbastanza magnanimo da volermela cedere, una bimba bella, anzi più bella del sole mattutino”.

Per questo, afferma in seguito, il suo unico desiderio è ormai quello di “trovare un baratro sufficientemente profondo per sprofondare con lei…”.

E in questo drammatico momento, Kleist sembra aver raggiunto la tanto agognata felicità.

Noi, per parte nostra, non ci curiamo delle gioie di questo mondo e sogniamo soltanto campi celesti e astri nella cui luce vagheremo con lunghe ali alle spalle”.

Così affermano Heinrich e Henriette, il giorno prima della loro morte.

Le ultime parole del poeta sono rivolte alla sorella. Dopo averle scritto che per lui, ormai, non c’è più aiuto possibile sulla terra, si congeda:

E ora addio; possa il cielo donarti una morte soltanto a metà così gioiosa e indicibilmente serena come la mia: questo è l’augurio più affettuoso e più profondo che io possa concepire per te.

Da Stimming presso Potsdam,

il… la mattina della mia morte.

Tuo Heinrich”.

La mattina del 21 novembre 1811, due colpi di pistola risuonano da Stimming presso Potsdam. Kleist, dopo aver tolto la vita all’amica malata, si suicida.

A noi, oggi, può essere più o meno utile sapere che è stato un grande autore per il Romanticismo tedesco. La sua tormentata vicenda umana – “la più tormentata che un uomo abbia mai vissuto” ha commentato lui stesso – può e deve colpirci ancora, a distanza di secoli.

Quello che la vita di Kleist urla è una grande domanda: è possibile essere felici?

La sua risposta, in fondo, per quanto drammatica, sembra essere: sì. 

Ma si può davvero aspirare a una vera felicità in vita, pur essendo ambiziosi e non accontentandosi della casualità con cui la vita ci capita?

La vicenda di Kleist inizia dalla errata interpretazione di un’idea. 

Anche di questa vicenda si può dare un’interpretazione, che a seconda delle sensibilità personali può essere positiva o negativa, può condurre o meno alla felicità.

Il mio augurio è che chiunque possa trarne un messaggio che sia innanzitutto compassionevole, e soprattutto personale. Perché se si deve venire disillusi è meglio che l’illusione per cui tanto si è lottato sia la propria e non quella che altri vorrebbero per noi.

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