Ti chiedo di potermi aspettare (racconto)

DI MIRIAM PAOLETTI

Salambò si sentiva come un pesce costretto fra i vetri dell’acquario

Credeva che la verità del movimento dell’aria, quello da lei imposto nel vivere, potesse disvelarsi e mostrare la stessa struttura insita nel movimento dell’acqua, di quando è sbattuta contro le pareti di vetro dalla pinna dei pesci nell’atto del nuotare: guardandoli si scopriva un certo modo in cui la pinna si muoveva da un punto all’altro dell’acquario, un modo da cui seguiva lo spostamento direzionale. 

Qual è il modo della coda per cui i pesci sanno dove andare? 

Qual è il modo in cui gli uomini vivono per cui sanno come vivere? 

Salambò non ricordava nemmeno da quanto tempo il pensiero del modo la ossessionasse, tant’è che credeva fosse un emergere ancestrale di domanda, un chiedere sorto all’origine dei tempi, trascendente, per cui riconosceva come abitudinaria la reazione di stranirsi di fronte ad una qualche parola detta o ad una certa frase usata o ad un certo movimento che lei non poteva riconoscere: perché le cose devono essere proprio così, la vita essere questa che è e non altra, perché questo modo di vivere? Non tanto perché lei volesse che le cose fossero in un altro modo o piuttosto perché disconoscesse lo scorrere degli attimi, come se quel che c’è ora potesse e dunque dovesse essere altro affinché lei potesse sentirsi riempita di senso, ma piuttosto perché non capiva perché proprio quella parola lì, proprio quel gesto, fossero quel che pure lei doveva ripetere: si sentiva come nelle vesti troppo larghe di uno sconosciuto, percepite come esagerazione del corpo alla stregua di una protuberanza non voluta. Avvertiva l’estraneità con cui ripeteva le movenze attraverso cui si vive, si accorgeva dello scatto impercettibile di intollerabilità, l’incomprensione del motivo per cui si compie un gesto di saluto in risposta ad un cenno: la sua  attenzione non poteva che fissarsi nel punto esatto in cui la mente percepiva la sua insofferenza. Perché proprio quel punto dell’acquario e non un altro? 

Salambò sapeva di non poter chiedere a qualcun altro di giustificare il fiato sprecato in questa concrezione d’esistenza piuttosto che in una solamente possibile, la quale, per tale condizione di indefinibilità, appariva come infinitamente determinabile, e perciò preferibile rispetto a questo esistere che è frutto di una scelta inemendabile: veniva da lei, dipendeva da lei, e lo sapeva e lo intuiva e non voleva che fosse altrimenti, perché non poteva permettersi di scaricare a qualcun altro il peso di dover giustificare la presenza agli occhi di chi sta dinanzi; come se non fosse mai abbastanza il semplice fatto di aver voluto donare luoghi nella mente a chi è distante tanto quanto il gesto mancato di un tocco, come se non si potesse vedere quanto possa ferire il mettere in questione la propria volontà di condividere una porzione di tempo, quando ciò accade non perché l’altro non sia all’altezza, ma perché chi dubita, dubita della propria scelta di volere qualcuno, ed allora la rimanda la rimanda la rimanda a chi possa scegliere al suo posto e così perde la propria scelta. La giustificazione doveva poter riversarsi da quanta presenza di lei affiorava al di sotto della membrana della sua esistenza, appena al di sotto della pelle, del suo sguardo profanatore che voleva capire tutte le cose per potercisi ritrovare, nelle cose stesse.  

Salambò guardava fuori dal finestrino.  

La strada scorreva al di là del suo viso riflesso sul vetro e cadeva vorticosamente al di sotto del suo sguardo; il movimento si scioglieva nella percezione viziata dalla continuità e si rendeva altro da sé, come il mutare della penombra sul finire del giorno, nel cullare di secondi arrotolati l’uno nell’altro, fino al punto in cui questi si privavano del loro stesso tempo: come una bolla, si gonfiava uno spazio oscuro laddove le proiezioni dondolanti del tempo rientravano in un punto escludendo l’altrove, e lei risaliva o sprofondava ed affiorava o svaniva in quel punto privo di  spazio, nel luogo che non è luogo. 

Salambò vedeva le rose. 

Gli occhi si stupivano della tonalità anomala che colorava quella immagine così consueta: il giallo rosa e bianco delle rose riflettevano un baluginare opaco, timido, lungo il metallo stridente della  panchina.  

Qualcuno aveva abbandonato le rose. Perché avvertiva questa tristezza innominata? Questo eco malinconico d’un contatto con un’altra vita mitica, inesistente inafferrabile ineccepibile, che si riverberava nei riflessi ondulati delle rose, che cresceva irriverente come il suono lontano delle chiese di campagna quando il rintoccare delle campane appare estraneo, appartenente ad un altro posto, ad un altro paese. In lei la realtà era così labile, si diceva, essa sfumava e veniva scostata dalla presenza inopportuna di altri luoghi, di altri spazi in cui risuonavano musiche di  sensi irreali, e perché la realtà si crepava, Salambò subiva l’erompere della sensazione di presenza di un altro senso: la rosa non era solo una rosa, era invece rosa abbandonata. La differenza era immensa, diceva, notava l’incolmabilità dello iato che ergeva fra le parole, si sorprendeva della crepa lungo i muri della inalterabilità attraverso cui si desidera che la vita sia  conchiusa: non pensava che quelle rose fossero state dimenticate da una coppia innamorata o buttate da un venditore ambulante di rose, questo pensiero non la sfiorava nemmeno; in lei, per lei, e solo perché lei guardava, quelle rose esistevano come il gesto d’amore mancato. Nella notte fredda d’inverno, fra i riverberi di luci soffuse e opache, al di là del finestrino insozzato del pullman, le rose erano riverse sulla panchina, rese mute, decapitate: gli avevano strappato l’amore di dosso, lontano dal loro “corpo vegetale”.  

E soltanto Salambò guardava le rose.  

La gente passava, indaffarata, così radicata nell’invarianza delle cose da ignorare la crepa, quel prosciugare d’amore: soltanto lei sapeva che da qualche parte l’amante malediceva il giorno in cui le rose erano divenute indispensabili per poter dire quelle parole, soltanto lei si accorgeva che  l’amante ora detestava il gesto che prima s’era mostrato nudo, indifeso, nel porgere le rose, al  cospetto d’un altro cuore, soltanto lei sapeva che l’amante ora rinnegava il coraggio divino per cui prima aveva potuto sussurrare ti amo.  

Ma poteva credere che esistessero le rose abbandonate e non soltanto le rose ch’erano solo rose? Il dubbio si ritorceva nella sua testa, minava le fondamenta della spontaneità, perché realizzava che solo lei vedeva le rose abbandonate mentre tutti intravedevano soltanto le rose che sono solo rose. Cos’é questa, è vita? E se anche fosse reale solo per me, perché io stessa dubito che le rose possano permettersi d’essere non soltanto rose ma rose abbandonate? Perché c’è questo distacco che non è nulla oltre all’essere ciò che non è sinceramente accertabile, palesemente reale e non un sogno

Salambò pensava che il suo sguardo era inopportuno, così come lo erano gli echi di sensi lontani che si affastellavano sulle cose vissute; voleva scrutare la pelle delle persone per capirne le espressioni ed osservare le espressioni per capire il loro modo di vivere. Dall’esterno poteva quasi pensare di vederlo, il modo di vivere degli altri, perché questo le si imprimeva addosso, senza voce, indefinibile, costringendola a soffermarsi a pensare alla lettura da attribuire ai movimenti delle persone,  e l’obbligava a cercare di capire cercare di capire cercare di capire continuamente il modo in cui gli altri potevano stare al mondo. Ma dall’interno si può dubitare del proprio modo? Cos’era questa forma di distacco che continuamente sprofondava fra la sua testa e la sua vita come una lama argentea che s’infila nella carne?  

Cos’era questo ticchettio di dubbio riversato nello sguardo che scarnificava la pelle delle cose sviscerando il modo, la vita? 

Soltanto lei dubitava della trasparenza del suo essere mentre le altre persone credevano al loro proprio modo d’essere rivelato nei gesti, nel peso dello sguardo, nel suono delle parole, nell’incurvatura delle labbra, nel guizzare delle pupille; Salambò scrutava il movimento vitale delle  persone, e sentiva di non poter capire. Guardava e non poteva capire o capiva come c’era qualcosa a loro proprio che non ritrovava in sé, una fiducia che non poteva riuscire ad imitare o appropriarsene per restare al sicuro dallo smascheramento che temeva temeva più d’ogni altra cosa. Il riconoscersi nelle proprie manifestazioni: non riusciva a credere a ciò che da lei scaturiva! Non poteva fidarsi della sincerità delle emozioni, delle sensazioni del corpo, dei pensieri della sua testa, delle reazioni alle cose. Lei provava a riconoscere, eppure, puntualmente, l’istante rivelava il rovescio vuoto del dubbio, e la sua vita si riempiva di nebbia, era bloccata e non poteva ricordare il perché poiché ne dubitava e quando sentiva che qualcuno metteva in discussione la sua  presenza, allora la paura del dubbio e del distacco ritornava e gli occhi non sapevano più che  espressione permettersi. La realtà non era reale, quale realtà è reale?

Lei voleva sradicare questa distanza, perché voleva più d’ogni altra cosa tornare a sapere, come quando era bimba, come si potesse stare al mondo senza percepire la sensazione di estraneità dai luoghi, di estraneità dalle parole, di estraneità dai gesti delle cose da dire o delle reazioni d’avere o di quanto di sé si vuole concedere alla vista. Tuttavia a volte si palesava il paradiso, e lei credeva, credeva, credeva nell’infinità di tempo e spazio in quell’istante, credeva a quella felicità ancestrale ed eterea che le trasmutava il viso e gli occhi: in quei momenti possedeva l’intuizione vaga d’una conoscenza divina e corporea di tutte le cose, gli echi mitici e imperscrutabili di luoghi dispersi.  

Ma poi ripiombava nell’altalenio dell’inferno, nell’estraneità da sé, nell’ossessione, e nel dubbio di poter davvero stringere fra le mani almeno una, una sola cosa vera di sé. Come vivere come dover pensare come? Non poteva che chiederselo, non poteva che non capirlo. Si potrà sviscerare ogni attimo? Aprirlo, scostarne l’estremità della carne, per sfilacciare i fili intessuti. Pensava che la sua realtà, quel che lei vedeva, la rosa abbandonata e non soltanto la rosa, avessero bisogno di lei per poter esistere in una qualche forma: se lei non avesse visto la rosa come rosa abbandonata, allora non sarebbe mai esistita in quel momento. Pensava, io vivo questa realtà e questa realtà esiste perché io la vivo, quel raggio di luce non sarebbe mai esistito se non ci fossi stata io a guardarlo; soltanto per far esistere la sua realtà allora poteva tollerare la  sua stessa vita, per poi disvelare, un lembo alla volta, le pareti vuote dell’inferno in terra per farvi riemergere la volta del paradiso: voler vivere. 

Salambò pensava al movimento delle sue mani: sapeva di capire le cose solo disegnando il contorno delle immagini dei suoi pensieri col gesto della mano. Qualcuno potrà scoprire, seguendo l’immagine descritta dal movimento, il pensiero invisibile all’interno della testa? Qualcuno poteva liberarla dal suo inferno e dirle qual era il suo modo? 

Salambò guardava le luci dei lampioni e vedeva la strada, la disegnava col dito lungo la superficie gelida del vetro. C’era quella strada, non poteva che vederla: la mancanza delineata dalla intermittenza regolare del metallo e dal rimandare di ogni luce a quella successiva in un continuo annunciarsi. Le luci erompevano circolari a partire dal proprio centro segreto, e simultaneamente  davano il movimento in avanti per cui Salambò vedeva la strada. E lei pensava alla vita, alla sua vita, e pensava che quelle luci fossero la coincidenza di altre anime lungo la sua via. Sentiva che  pensava quel che le sensazioni le suggerivano di fronte al suo accorgersi di ciò che scompare, di ciò che non permane. La strada mancante tendeva dritta oltre sé, decisa, ferrea, in avanti, un susseguirsi continuo di eventi, giorni persone luoghi, e lei li perdeva tutti. Lei non poteva che muovere il passo oltre la luce su cui si soffermava perché doveva vivere, e nel poggiare il piede scopriva che ad ogni salto di luce al di là da sé, corrispondeva l’abbandonare di quella al di qua da sé. E le luci erano tutte ferme in quel loro punto oscuro, non potevano muoversi, non potevano o non volevano seguirla, la vita delle persone si svincolava dalla sua seppure lei avrebbe voluto soltanto soffermarsi a scrutarne una, non proseguire oltre, così come s’ignorano i riflessi curvi delle chiese, a causa del peso divino, sui vetri delle case, ma fermarsi, imporsi la sospensione, l’attenzione o il coraggio di scostare la porta e di accorgersi che nel riverbero irriproducibile di quella luce, si  possedeva già quel che si cercava, ed accorgersi che quel che si vedeva prima, della luce, era la conoscenza sfocata, non curata, della superficie delle persone. Lei voleva fermarli tutti, nel suo cuore, nella sua mente; ricordare il loro modo, estrarlo dalla pelle increspata del volto aperto nel sorriso, o risucchiarlo dalla sensazione che danno gli occhi che guardano.  

Voleva solo guardarli. Voleva osservare tutte le luci e nominarle una per una col proprio nome, imprimere nel cuore quel modo di vivere che lei aveva intravisto al di sotto del gesto del giocare col ciuffo arricciato dei capelli o di quel modo di parlare disegnando il pensiero con le mani; e riconoscerne una fra quelle sotto la quale fermarsi, in punta di piedi per raggiungerla, sospesa a respirare quella sua luce e sorprendersi ed ancora innamorarsi e sempre rinnovare l’amore per quel suo sangue dorato.  

La luce aurea e divina del tramonto d’inverno filtrava fra i capelli di Salambò, e lei era felice. Vedeva la luce, guardava la luce e i gabbiani volare nel mare di questa luce, e sbizzarrirsi e cambiare direzione e non saperne nemmeno il motivo; s’accorgeva di quanto fosse prezioso quel momento di vita, di quanta bellezza i suoi occhi fossero capaci di raccogliere con la stessa  dolcezza che scorre nelle mani dei vecchi quando questi avvolgono il viso piccino dei bimbi per  poterli accarezzare e lasciare di sé il ricordo muto. Desiderava quasi di porgere il suo modo negli occhi delle persone che amava come suggello della promessa della sua presenza, dicendo io so vedere questo! io so vedervi! so solo questo! e non so se sia abbastanza! perché lei amava il loro modo di vivere e voleva ricambiare tanta meraviglia, chiedendo loro, soltanto, per non aver più paura, di condividere una impercettibile porzione del loro luogo ed a lei sarebbe bastato, grata, sfiorandolo col suo sguardo profanatore.

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