DI ALBERTO GROMETTO
Conoscete quel luogo comune, la più tipica delle frasi fatte, che comincia con il classico “Il Mondo si divide in due categorie” e dopodiché prosegue con l’esposizione di quali siano queste due categorie?
I perdenti, e i vincenti.
Gli inutili, e gli utili.
I deboli, e i forti.
Cose così, insomma. Le due categorie sono variabili, a vostra esclusiva discrezione, cambiano nome di volta in volta. Ma nei fatti, sostanzialmente, con le debite differenze, sottintendono la stessa cosa.
E cioè che c’è chi, vuoi per debolezza vuoi per stupidità vuoi per scelta della sorte vuoi proprio anche sicuramente per predisposizione naturale, non riesce a “condurre il gioco” e si ritrova ad essere pedina nelle mani di qualcun altro o comunque in una posizione di inferiorità, e chi invece desidera avere in mano la situazione e ce l’ha.
Ecco, LA LOCANDIERA del Maestro CARLO GOLDONI, oltre ad essere una delle opere teatrali più celebri e conosciute e famose della Storia del Teatro nostrano e non solo, parla proprio di questo: del fatto che esista gente fatta per essere conquistata e gente fatta per conquistare.

La vicenda narra di una locanda fiorentina nella quale soggiornano ospiti (più o meno) illustri, eleganti (ma dove???) e raffinati (per nulla!). Come ad esempio il Marchese di Forlimpopoli e il Conte d’Albafiorita: il primo uno spiantato nobilastro povero in canna che ha dilapidato le fortune familiari, a loro volta già dilapidate dal suo stesso padre, e che è costantemente e disperatamente in cerca di qualche zecchino, per poter tirare avanti e sopravvivere; il secondo, di contro, non è nato nobile ma lo è diventato arricchendosi a dismisura e così, a differenza dell’avversario che il titolo se l’è venduto, lui lo ha comprato.
Questa formidabile coppia comica meravigliosa, degna dei Blues Brothers o di Sandra e Raimondo o C3PO ed R2D2 oppure, guardando al cinema d’animazione, di Timon e Pumbaa, degli Stanlio & Ollio anti-litteram ecco, come tante celebri coppie della nostra narrativa, è uno dei motivi per cui quest’opera merita di essere vista e rivisita e rivista ancora: i due si odiano terribilmente, sono rivali, in lotta l’uno contro l’altro per dimostrarsi a vicenda (e a sé stessi) di essere il migliore. La vera nobiltà vien dalla propria discendenza, dai propri modi, dal proprio portamento e non da quanto si possa spendere e spandere, sostiene uno. Chi? Ovviamente lo squattrinato che piange miseria. L’altro invece può comprare tutto quello che vuole e quando vuole. E del resto che gli frega? Ritiene il Marchese un uomo ridicolo, che si vanta del niente. E in effetti lo è: meravigliosamente, comicamente, irresistibilmente ridicolo!
Ma per cosa sono in costante lite tra loro, questi due cialtroni buffoni? Oltre che “farsi vedere” dall’altro, qual è il pretesto del loro litigare? Beh, lottano per Lei. Lei? La protagonista assoluta della vicenda, colei che dà il titolo all’opera: la locandiera Mirandolina. Una donna forte, di carattere, indipendente, seducente, potente, una leonessa di quelle vere che è insieme pure volpe e lupa. Lei è nata donna in un’epoca in cui le donne erano considerate perlopiù come un oggetto, un trofeo da esibire, un orpello e nulla più. Ma non lei, oh no, lei no, non Mirandolina. Astuta, attraente, intelligente, orgogliosa, manipolatrice, sa quel che vuole e come ottenerlo: essere libera, non dipendere dal volere di nessun uomo, decidere per sé stessa. Ma anche, e soprattutto mi verrebbe da dire, vincere.

Mirandolina non vuole nessuno dei due pretendenti, nessuno è capace di fare breccia nel suo cuore, lei li ritiene (giustamente) ridicoli e privi di attrattiva. Non le interessano troppo i soldi (anche se i regali del Conte li accetta eccome) e sicuramente non la intriga nemmeno la “protezione” dello squattrinato Marchese (che poi in cosa consista questa protezione che lui costantemente le offre, non si sa…). Le interessa solo vincere. E conquistare. Così fa il possibile per preservare questa situazione di inscalfibile stallo, questo limbo potenzialmente infinito, nel quale entrambi continuano a soggiornare nella locanda e rimangono acerrimi avversari convinti di potercela fare, di poterla conquistare e uscirne vincitori, quando invece lei non ci pensa neanche a concedersi a uno dei due. Poi però un giorno tutto cambia d’improvviso. Arriva in locanda un nuovo avventore, il Cavaliere di Ripafratta, che ha in odio tutte le donne, onde per cui da una parte schernisce e si fa beffe dei due “nobili” (tra molte virgolette) che comunque son molto bravi a mettersi in ridicolo da sé e dall’altra è totalmente, completamente, assolutamente immune al fascino di Mirandolina, che tratta malamente.
Ma secondo voi, lei, lei che è abituata a conquistare quel che vuole e quando vuole, può lasciarsi scappare l’opportunità di vincere una sfida impossibile per chiunque (ma non per lei) e di mettere in pratica tutta la sua fredda e calcolata astuzia con lo scopo di portare quello sventurato Cavaliere, che ancora non sa in cosa si è andato a cacciare, a cadere innamorato e adorante e distrutto ai suoi piedi?
Riuscire a confezionare una rappresentazione nuova, fresca, originale, brillante, attuale, piena di ritmo e di vita di un’opera nota, stranota, arcinota e con oltre due secoli e mezzo di repliche sulle spalle è un’impresa che merita di essere celebrata e omaggiata, onde per cui il Comitato di Redazione nella sua interezza si complimenta, si congratula e applaude a quanto il regista ANTONIO LATELLA e gli attori del suo cast sono stati capaci di realizzare: è stato al TEATRO CARIGNANO DI TORINO, un luogo di incanto e bellezza che oramai è tra i nostri posti preferiti al Mondo, che hanno regalato al nostro sguardo una lettura straordinaria, emozionante, coinvolgente e d’una forza ineguagliabile del capolavoro goldoniano.

Carlo Goldoni è un autore di un talento e d’una capacità espressiva talmente alti che pochi termini non bastano a incasellarlo. Lui ha raccontato del suo tempo in una maniera attraverso cui è riuscito a raccontare d’ogni altra epoca, e questo perché è stato narratore d’umanità. I pregi e le qualità, i difetti e le mancanze, le bontà e le cattiverie proprie dell’uomo settecentesco non sono poi tanto diversi da quelli dell’uomo del duemila. Ed è qua che sta il merito grandissimo della versione de «La Locandiera» andata in scena al Carignano e a cui noi abbiamo avuto l’onore di assistere: guardare a quell’opera, andare al di là delle epoche trascorse e della distanza e di quelle parole così belle ma così antiche, e riconoscerne l’eterna attualità, oltre che la sfaccettata complessità. Perché sì, questa è una storia che fa ridere tantissimo, da perdere la mascella e rimanere senza fiato. E la compagnia è stata a dir poco eccezionale per come e quanto ci ha fatto sbellicare. Ma c’è molto, molto di più.
C’è chi conquista, e chi viene conquistato. Può essere che spesso uno non sappia a quale categoria appartenga, o che ci si convinca di appartenere ad un gruppo piuttosto che ad un altro. Può pure accadere che si passi da una parte all’altra, o di essere entrambe le cose a volte. Ma quello che non può essere, è di non essere né l’una né l’altra cosa. Nel momento in cui sei qui, su questa Terra, circondato dai tuoi simili, tu verrai conquistato, oppure conquisterai, o entrambe le alternative. Ma non puoi sottrarti a delle forze che sono più grandi di Te e che sono dentro di Te. Ci si può pure illudere di essere superiori, di non far parte del gioco. Ma il gioco se ne frega, il gioco ti sovrasta e tu che fino a ieri ridevi degli altri puoi finire per diventare oggetto delle stesse risate. Perché ogni essere umano, anche il più razionale, anche quello col cuore di pietra, sa cosa significa desiderare. E come il desiderio ci possa rodere dentro e logorare fino alla follia.
In questa storia, e nella lettura che le è stata data, c’è sensualità, attrazione, desiderio, smania, ambizione, voglia di conquista. Esiste qualcosa di più afrodisiaco che guardare in faccia qualcuno e pensare “Deve essere mio!” e poi far sì, nel giro di due parole e una carezza, di cambiare quella frase in “È mio!”. Far sì che una persona, toccando le giuste corde, diventi tua.
Quando Mirandolina, maestra di seduzione, si trova alla stessa tavola del Cavaliere, che la disprezza, e inizia a spargere qui e là le parole giuste e i giusti complimenti, sussurri, gesti, tutto strategicamente studiato!, e quello inizia a cedere… il loro desiderio, di entrambi, avvampa, divampa, infiamma, infuoca la scena. Pure le luci sopra le loro teste “fanno faville”, cominciano a sfarfallare, a fare rumore, a spegnersi, a riaccendersi, a riluccicare. Rappresentazione visiva di quello che sta nascendo tra loro. Un’intuizione scenografica geniale. E così il loro desiderio diventa il nostro, di noi che li guardiamo e desideriamo. E la sensazione strugge e al tempo stesso è magnifica. Quei due pagliacci, con le loro risatine e i loro sguardi, non sanno che sono perduti. Non solo quel virtuoso Cavaliere destinato a diventare un miserabile disperato che griderà amore, ma pure lei che aveva il coltello dalla parte del manico e che però non aveva calcolato come spesso chi è conquistatore, conquistato dalla voglia di conquista, possa finire per farsi conquistare. Nulla è più potente del desiderare.

Non so cos’altro possa essere detto, se non che il turbinio di emozioni suscitatomi da questa rappresentazione, la quale m’ha conquistato, strabiliante produzione targata TEATRO STABILE DELL’UMBRIA, è stato tale per mezzo di uno strabiliante cast d’attori di primissimo livello, di una bravura assoluta e una passione fenomenali. Tutti eccezionali nel proprio ruolo: da un GABRIELE PESTILLI nei panni del servitore che con poche parole sa farci urlare dalla gioia passando per quel duo splendido composto da MARTA CORTELLAZZO WIEL e MARTA PIZZIGALLO magnifiche nel restituirci i personaggi (monumento di comicità assoluta!) delle comiche menzognere Ortensia e Dejanira fino ad arrivare al Cavaliere di un LUDOVICO FEDEDEGNI veramente da urlo, al Conte di un FRANCESCO MANETTI d’un carisma proverbiale e al Fabrizio di ANNIBALE PAVONE, impeccabile nel fornirci la rappresentazione assolutamente umana del cameriere innamorato di Mirandola e che soffre nel vederla contesa da così tanti rivali. Tutto funziona a meraviglia perché in primis funzionano loro.

Da ultimi, cito due interpreti che porteremo nel cuore.
Innanzitutto l’immenso GIOVANNI FRANZONI, magnetico nell’incarnare uno dei personaggi teatrali più divertenti, comici, ilari, simpatici e sganascia-risate possibili: il suo Marchese, che venderebbe al mercato la sua stessa madre per un soldo in più, e che a suon di “Son chi sono!” quando invece non è proprio nessuno, fa talmente pena ed è talmente gretto, abbietto e laido… che non gli si può non voler bene! È talmente moralmente riprovevole, da farci provare simpatia e vicinanza umana. Ridicolo, goffo, scroccone, disperato, con una predisposizione straordinaria ad umiliarsi, costui è semplicemente memorabile. In fondo non così diverso dal Conte, a parte per i soldi: ma entrambi sciocchi, rozzi, villani. Ed entrambi irresistibili. E del resto, questa stessa rappresentazione ce lo dice, quei due nemici poi non si odiano così tanto come si direbbe.


E poi, ovviamente, come non citarla? Lei, la Mirandolina di SONIA BERGAMASCO. Interprete per cui i complimenti non bastano, capace di far innamorare, di inscenare un carattere d’un forza invincibile, una potenza della natura!, ma che al contempo presenta infine pure delle debolezze. Lei è stata in grado di ergersi a incarnazione di quel desiderio che non può non essere desiderato, che è troppo sovrastante e ineludibile, pure per un Cavaliere. Ma trattasi pure di un desiderio vivente che può finire per desiderare, e non solo farsi desiderare. Congratulazioni per essere stata capace di riuscire a diventare tutto questo.


Il desiderio è radice e anche specchio dell’Essere Umano: ridicolo, contraddittorio, inevitabile, folle, assurdo. Soprattutto, inspiegabile. Per questo ci raccontiamo Storie, per questo facciamo Teatro: per cercare di capire chi diavolo siamo.


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