DI ALBERTO GROMETTO
Ci sono persone destinate a “non amarsi”. A “non amarsi” per tutta la vita. Cosa significa? Che forse si odino? Beh, sì, dell’odio c’è, eccome! Ma sfortunatamente c’è pure così tanto amore nel mezzo, che quell’odio non potrà mai essere solo odio. Così come, fatto ancor più grave, quell’amore non sarà mai vero amore. O sì? In parte, magari? Ah, non lo so! È complicato anche per me. Il fatto è che l’Umano è un essere che ha bisogno di assoluti, che siano universali e generali, ma vive però in un mondo che poggia sugli specifici, particolari e soggettivi. Che percepisce l’esistenza come “bianca” o “nera”. Quando invece il più delle volte è grigia. E questo vale anche per i nostri legami. Soprattutto per i nostri legami.
Tutti quanti conoscono “Lewis & Clark”, tutti quanti amano “Lewis & Clark”, tutti quanti stravedono per “Lewis & Clark”: Willy Clark e Al Lewis son una coppia di comici amatissima, apprezzatissima, applauditissima, che riscuote successo e risate e applausi… e che applausi!… ogni volta che son su quel dannato palco insieme!
Ecco, il racconto delle loro vicende parte quando oramai la loro storia è già finita. Esatto, avete capito bene: quel geniaccio d’un Maestro che è stato il drammaturgo e sceneggiatore (teatrale, cinematografico e televisivo!) Premio Pulitzer NEIL SIMON comincia il suo racconto “dalla fine”, da quando oramai i giochi sono fatti, a distanza di anni da quel successo, da quel trionfo e soprattutto da quegli applausi.

Lewis & Clark non esistono più, né come coppia, loro insieme erano “I ragazzi irresistibili”, né come Lewis o come Clark. Al Lewis ha deciso di lasciare, così, di punto in bianco, un giorno come tanti altri di undici anni prima. Di lasciare quel lavoro, quella carriera, quel palco. Semplicemente era giunto al capolinea, voleva la pensione, aveva finito. Willy Clark invece, oh!, lui non avrebbe mai voluto, non avrebbe voluto nemmeno per tutto l’oro del Mondo, ci sarebbe morto su quel palco. Accanto ad Al. Ma non ha potuto farci niente. Non poteva certo essere “Lewis & Clark” da solo. E sebbene non abbia lasciato la professione, la professione ha certo lasciato lui. Senza più l’altro, chi lo avrebbe voluto? E c’è da dire che la cosa non lo ha certo reso un individuo piacevole e amabile con cui lavorare, onde per cui quei pochi miseri ingaggi che può aver ottenuto nel corso degli anni, se li è bruciati come niente.
A noi non è concesso vedere quello che sono stati. Che sono stati per oltre quarant’anni. Quello che è stato… è stato. Soprattutto, è passato. Trascorso, via!, finito. Tutto quello che possiamo vedere è quel vecchiaccio scorbutico di Willy Clark, che ad Al non ci pensa manco più (ma sarà vero?), in pigiama tutto il giorno e tutti i giorni, chiuso da una settimana nella sua squallida camera d’albergo, che il Mercoledì attende la visita del nipote, da lui considerato un “pessimo agente”, che gli riporta notizie dei magri lavori che potrebbe avergli procurato… e ogni volta non vanno bene. Ah, il carattere e l’età non saranno dei migliori, ma al vecchio Willy la battuta sempre pronta e arguta e strapparisate non manca di certo! Fa ancora ridere, fino alle lacrime: e anche se lui non ha più un pubblico, in realtà un pubblico che si sganascia la mascella a furia di risate c’è eccome. Siamo Noi, Noi che nel buio del Teatro non facciamo che ridere dinanzi al nipote che gli racconta dei figli e lo zio che gli dice di ritenerli insopportabili e ogni volta gli sbaglia il nome!

Si parte subito ridendo. E, io ve lo dico!, il fiume – il mare – l’oceano di risate travolgenti che il resto dell’opera teatrale è capace di suscitare rende per chiunque la serata in cui lo si vede “unica nella vita”. Come unico è il “loro” modo di far ridere. Loro? Ma… LORO, chi?
Forse non imprevedibilmente – ma nel solo meraviglioso modo possibile perché la storia avesse il suo senso! – il nipote presenta una proposta che potrebbe salvare Willy dall’indigenza nella quale sta versando da un lustro o due. Lo vogliono, ancora lo vogliono e rivogliono!, per un sensazionale spettacolo televisivo messo in scena da un grande network che desidera inscenare una specie di “operazione nostalgia” da presentare al grande pubblico. Magnifico!, fantastico!, incredibile! No? No. No, perché c’è una sola ed unica condizione, la peggiore possibile per Willy. Deve tornare, per quell’unica occasione, a “far coppia” con… con lui. Con quello là. Il più spregevole bastardo incallito che possa esserci ai suoi occhi: Al Lewis. No, non rivogliono Willy Clark. Loro rivogliono “i ragazzi irresistibili”. Il che è ben diverso.
Ora, il fatto qual è? Che Clark ha sempre odiato Lewis. Ad ogni pie’ sospinto, quando recitavano insieme, e quello pronunciava una qualche “s” di una battuta, subito gli partiva lo sputo in faccia. Sembrava di lavorare in una tempesta!, ricorda Willy. E poi gli picchiettava sempre l’indice sul petto con una violenza tale che… che a detta di Willy, il livido sta sbiadendo solo ora, dopo più di un decennio. Ma perché allora lavorarci insieme per quaranta e passa anni?, gli chiede sconcertato il disperatissimo nipote manager. Cala il silenzio. Risposta: Perché era bravo.

Tre piccole, semplici parole. Perché era bravo. Il migliore che avesse mai visto. E quando erano su quel palco, insieme, oh!, erano “una cosa sola”. Erano una cosa sola, e lo erano “insieme”. E quello è il primo momento – non sarà il solo – in cui tutto quel ridere divertito spassionato si ferma di botto, e subentra un altro sentimento. Subentrano le lacrime. Perché lì, in quel caso, comprendi la vera sofferenza d’un uomo che aveva una sola cosa veramente importante nella vita, l’unica per lui, e cioè stare su quel palco ed essere nel luogo che per lui era il più bello e starci con la sola persona al mondo con la quale era in grado di starci, e vedersela portare via. Vedersela sparire. Oltre quarant’anni trascorsi insieme a quell’uomo tanto odiato nella vita “normale”, ma poi in quell’altra vita, quella “vera”, quella sul palco, ah!, lì allora ci si sentiva come “a casa”, nel proprio posto preferito, il solo in cui tutto ha un senso e nel quale si vorrebbe stare. Fino a quando un giorno… puf!, tutto finisce di botto… ed è perché lo ha voluto quell’altro. Come non ci si fa a sentire abbandonati, me lo spiegate gentilmente?
Una storia così immensamente grande e sconfinatamente autentica ha bisogno di Maestranze altrettanto immense e grandi e sconfinate e autentiche per poter essere portata in scena. Fortuna che, nel nostro caso, ne abbiamo trovate di talmente sconcertanti e sublimi che, davvero, ad oggi ci sembra impossibile immaginarci qualcuno di diverso da loro a lavorare su quest’opera d’una bellezza impressionante, alla quale abbiamo avuto lo straordinario onore e assoluto privilegio di assistere entro quella meravigliosa cornice che è il TEATRO CARIGNANO DI TORINO.

Ci si spezza in due dalle risate dinanzi alla performance del Sommo UMBERTO ORSINI, novantenne con le energie e la forza e il carisma di un ventenne e che risplendente, luminoso più che mai, sui palcoscenici d’Italia da oltre settant’anni, ci offre un’impressionante e sfolgorante interpretazione nei panni del rintronato ma ostinato Al Lewis, acciaccato ma sempre un gran mattacchione spassosissimo, che dopo più di un decennio di silenzio decide di tornare con Willy Clark per quell’ultima, sofferta, esibizione che riserverà litigi dei più comici e ilari possibili!

Ovazioni delle più sincere e appassionate possibili merita il grandioso FRANCO BRANCIAROLI, semplicemente stratosferico nel portare in vita quel brontolone scorbutico di Willy Clark, che pur di poter tornare dinanzi a quel pubblico è disposto persino a fare la cosa peggiore che ci sia per lui, far di nuovo coppia – per l’ultima volta – con quello che, sì, era il migliore… dei comici, ma “come essere umano” disgustoso! E comunque, anche se lo farà, dice al nipote che è contrario. Che poi cosa cambia essere contrari a qualcosa, se tanto poi quel qualcosa lo fai lo stesso? Boh, quel pagliaccio di Willy ci tiene comunque a sottolinearlo!

Infine, però, ci fanno entrambi piangere. A diritto. Sì, io ho pianto. Pianto come un cucciolo di vitello portato al macello. Non si può non piangere. E il merito è di quella storia, quei personaggi, quelle battute. Il merito è di quel duo attoriale formidabile e fenomenale. E il merito, ovviamente, è di colui che li ha diretti. Quando si parla di Teatro o Cinema o Doppiaggio oppure Recitazione definirlo “Eroe” è davvero troppo poco. Ci si deve inchinare al suo cospetto, anche solo per aver diretto questa strabiliante produzione targata TEATRO DEGLI INCAMMINATI, COMPAGNIA ORSINI E TEATRO BIONDO PALERMO IN COLLABORAZIONE COL CENTRO TEATRALE BRESCIANO (CTB) E CON L’ASSOCIAZIONE MARCHIGIANA ATTIVITÀ TEATRALI (AMAT) E IL COMUNE DI FABRIANO. E che lascia senza parole. Perché in più di cinquant’anni moltissimi, al Cinema o in TV o a Teatro (mi vien da pensare a grandissimi nomi quali Woody Allen e Peter Falk diretti da John Erman oppure Walter Matthau e George Burns sotto la regia di Herbert Ross), hanno voluto trasporre una sceneggiatura di questa portata. Ma riuscire ad emozionare ancora e così tanto e in un modo così sconvolgente da risultare quasi indescrivibile in poche parole e in maniera nuova come in questo caso, solamente lui poteva riuscirci: il regista MASSIMO POPOLIZIO.

Esiste una cosa chiamata “La Zona”. Se ne parla da diversi anni soprattutto in riferimento al mondo sportivo. Ma in realtà si tratta di qualcosa che può toccare qualsiasi ambito. Tutti conoscono Michael Jordan. Anche chi non sa nulla di Basket, lo conosce. Come mai? Non dipende solo dal film realizzato con i simpatici personaggi animati della Looney Tunes. Vedete, il Basket ha avuto tanti campioni. Cosa aveva Jordan di diverso? Lui sentiva la Zona, la sua Zona. E questo gli permetteva di entrarci. Ma che cos’è la Zona? La Zona è quel luogo dove tutto ciò che fai per una strana magia che non capisci fino in fondo ti riesce. E tutti noi, chi più chi meno, ha sperimentato questa cosa. Che sia nello sport, nella musica, nella scrittura o nella vita in generale, almeno ogni tanto è successo. E a chiunque. Non solo ai vari Michael Jordan. Quando sei lì dentro, la cosa che dici è quella giusta, la cosa che fai è la migliore che potessi fare, ti trasformi in energia pura. Ti senti forte come un leone, ti senti invincibile come una divinità, ti senti bene come in nessun altro posto in tutta la Storia del Mondo. È come dire di essere “in stato di grazia”. Stare nel luogo per il quale senti di essere fatto. Entrare nella Zona significa tutto questo. Quel tipo di intensità lo vivi solo lì dentro. La sensazione è pazzesca. Il problema è che quando ci entri, non vorresti più lasciarla, la tua Zona. E quando ci esci, vorresti tornarci appena puoi. Sviluppi una dipendenza. Vorresti sempre solo stare là.

Il fatto è che però guardando a Jordan, oppure a Beethoven che la sua Zona la trovava in quegli 88 tasti bianchi e neri, sei solo, lì dentro. Non che ci fai caso, ma il più delle volte è così. Sì, Jordan aveva i compagni di squadra e gli avversari, ma era talmente “dentro la sua Zona” che gli altri non esistevano nemmeno. Ecco, per Willy Clark così non era. C’era sempre un’altra persona con lui. E quella persona era Al Lewis. Il perché o il per come né l’uno né l’altro sanno spiegarselo, non hanno idea del perché ciò avvenisse, sanno solo che quando recitavano insieme erano qualcosa che non erano mai stati con nessun altro né sarebbero mai stati con qualcun altro. Willy non era solo nella sua Zona, quando recitava con Al. Nella sua Zona c’era anche Al. E quella dunque non era più solo la zona di Willy o quella di Clark, ma credo diventasse la “LORO” Zona. Insieme. Di fronte al ricordo di quello che si è stati insieme, non solo per loro due ma per chiunque li avesse visti o volesse disperatamente rivederli di nuovo uno accanto all’altro, qualsiasi tipo di inimicizia o antipatia o odio scompare. Non risulta altrettanto vero, o autentico, o forte, o immortale come… come ciò che erano stati insieme. Può morire qualcosa di così bello e inspiegabile ed eterno? No, no che non può, nemmeno se ci si mette di mezzo il Mondo, o la Vita (quella inautentica) o la Vecchiaia e gli Anni e il Peso del Tempo. Willy e Al saranno invecchiati, e pure male! Non si parleranno da anni, e s’odieranno. Ma ancora sono loro, ancora fanno ridere, e ancora ci lasciano come incantati.
È alla fine pure una vicenda che ci comunica la cosa più incomunicabile che ci sia: l’incomunicabilità. Quei due grandissimi comunicatori, che orde di pubblico adorante fan ridere con una sola alzata di sopracciglio, non sanno però “parlarsi” tra loro. Perché dopo tanti anni passati separati, io so cosa Willy volesse dire ad Al, che lo aveva abbandonato. Che aveva abbandonato “loro due”. I ragazzi irresistibili. Posso immaginarmelo però. Credo che quello che gli avrebbe detto sia più o meno questo:
È come se non fossi più io, da quando te ne sei andato. Con Te io ero io come non lo sono mai stato con nessun altro, nemmeno con me stesso. E quando ero con Te, lì sopra su quel palco, ero vero e sentivo il vero come in nessun altro caso in tutto il mio esistere. E mi manchi, mi manchi ogni momento, ogni istante, ogni giorno. Mi mancano soprattutto “noi due”. Quello che eravamo. E che, forse, chissà, saremo per sempre… no? Ci sarei stato per sempre, in eterno, su quel palco, insieme a Te. Chissenefrega se quel qualcosa che non capisco e non mi spiego e che eravamo insieme quando si recitava, non lo avevamo anche nella Vita. Era quella la sola Vita possibile, per me. E anzi, avessi potuto scegliere, io avrei scelto di vivere dentro uno dei nostri sketch. In eterno. E insieme a Te. E vorrei solo sapere se per Te è stato lo stesso, se anche Tu hai provato e sentito quel che ho provato e sentito io, ho un disperato bisogno di sapere se anche per Te tutto questo ha avuto la stessa importanza che ha avuto e avrà eternamente per me.
Non credo s’odiassero davvero, dopotutto. Ma chi può dirlo! E nel frattempo?
Vi prego, nel frattempo dategli quello che amano, ciò per cui sono nati…
Applausi.


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