Riccardo III  – Il potere che genera sé stesso

DI ALBERTO GROMETTO

«Il potere logora chi non ce l’ha»

Giulio Andreotti

In realtà, la frase non è sua. La pronunciò Charles Maurice De Talleyrand un paio di secoli prima. Ma Andreotti la ripropose e nell’immaginario collettivo gli venne attribuita.

Siamo in presenza di due assoluti maestri della fine e infida arte della politica. 

Uno francese, l’altro italiano. 

Uno vissuto a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, l’altro uno dei grandi protagonisti della storia della sua Nazione nella seconda metà del XX secolo. 

Uno sostenne nell’ordine: il Re Luigi XVI, la Rivoluzione Francese, l’Imperatore Napoleone Bonaparte e poi di nuovo la monarchia. Uscendone sempre indenne. L’altro fu 7 volte Presidente del Consiglio dei Ministri, 34 volte Ministro della Repubblica tra cui, ad esempio, 8 volte Ministro della Difesa, 5 Ministro degli Affari Esteri, 3 Ministro delle Finanze, 2 Ministro dell’Interno, 2 Ministro della Cultura… e chi più ne ha, più ne metta!

Uno è l’uomo che pur rappresentando la potenza europea sconfitta (la Francia napoleonica) e per la quale era stato necessario organizzare il Congresso di Vienna, riuscì nell’impresa impossibile di infilarsi nei negoziati e farla da padrone.

L’altro invece si è ritrovato al centro di tutti i più grandi scandali, intrighi e questioni diplomatiche del suo Paese nell’arco di un cinquantennio di vita politica.

Uno è stato soprannominato “Il Diavolo Zoppo”, “Il Camaleonte” e “Lo Stregone Della Diplomazia”.

L’altro invece ebbe appellativi quali “Il Gobbo”, “Il Papa Nero” e “L’Uomo-Delle-Tenebre”.

Entrambi ebbero molti nemici agguerriti. Entrambi non ebbero amici veri. Entrambi capirono qualcosa di molto importante sul potere. E cioè che logora chi non ce l’ha. E lo logora sempre, anche quando poi quel potere te lo prendi. E questo è terribile. Ed è quello che io stesso ho capito prendendo visione, presso il meraviglioso e scintillante Teatro Carignano di Torino, di quel «Riccardo III» che ha fatto la Storia, quello scritto da William Shakespeare, anche se l’adattamento è del drammaturgo Ármin Szabó-Székely e la regia è della giovane ma brillante e talentuosa Kriszta Székely. Non è propriamente l’opera del Grande Bardo, quell’inglese vissuto a cavallo tra ‘500 e ‘600, ma lo spirito, le vicende e i personaggi sono quelli. Anche se, si sa, pur essendo la stessa storia, la regia e lo sguardo di chi la mette in scena fa la differenza. I temi che quell’uomo straordinario, forse il più grande autore che tutta la Storia dello Storytelling abbia mai avuto (tanto per far capire che noi di «MERCUZIO AND FRIENDS» non ci sbilanciamo mai!), affronta col suo «Riccardo III» sono di una COMPLESSITÀ, una MOLTEPLICITÀ e una MONUMENTALITÀ (e lo sappiamo che questa è una parola utilizzata molto poco, ma bisogna andare a ritrovare termini desueti per restituire, almeno in parte, l’essenza della vera e autentica e profonda grandezza del MAESTRO ASSOLUTO SHAKESPEARE!), veramente pazzesche e straordinarie e incredibili! E dunque è più che comprensibile, è anzi giusto e naturale e logico e sacrosanto, che un regista e un adattamento specifico si concentrino su un tema specifico. 

E il tema in questo caso è proprio un punto cardine toccato dal caro vecchio Zio William, lo abbiamo citato prima: IL POTERE.

Il potere che si ritrova nelle mani di chi è, tutto sommato, contento di averlo.

Il potere desiderato da quelli che stanno intorno al potente per essere come lui.

Il potere voluto da coloro che quel potente cercano di indebolirlo.

Il potere che porta a lotte senza senso il cui solo significato è sempre: il potere.

E poi il potere voluto da chi non lo hai mai avuto, ma che lo vuole. Eccome se lo vuole! 

La storia è quella. Il Re c’è, ma non è Riccardo. Lui è solo uno dei fratelli del Re. E intorno al Re vi sono inimicizie, rancori, violenze, invidie, gelosie, tramette (le vere trame le ordirà poi lui, Riccardo). Tutti lo vogliono, quel potere. Ma nessuno lo vuole come lui. E lui, che nessuno s’aspetta che sia quello che è, sfrutta questo a suo vantaggio: tramando, ingannando e ammazzando farà tutto quello che è necessario per essere lui il solo e unico Re. La messinscena è sontuosa e riesce a prendere quello che ha narrato Shakespeare, il quale ha raccontato solo cose eterne, e ad adattarlo ai nostri tempi. Il sovrano, attorniato dalla sua famiglia, comunica al popolo guardandolo dritto in camera. Così sul palco abbiamo quelli che parlano dinanzi al cameraman, mentre davanti a loro sale e scende, alla bisogna, un’enorme pellicola trasparente su cui proiettano l’immagine al pubblico. Cioè: al popolo. La regia ci permette così di vedere la doppia faccia del potere: come si mostra al mondo e il suo “dietro le quinte” mentre esso crea l’immagine con cui mostrarsi al mondo. Indice di gradimento, fake news, piattaforme social e media… di questo parlano, questi personaggi moderni, ma comunque eternamente shakesperiani. Non più la regal sala reale e abiti e spade e balli cinquecenteschi, ma un grande ed elegante e raffinato chalet di montagna e giacche e cravatte e pistole e festini. Non più il trono, ma un’enorme poltrona “da ufficio” in pelle con le ruote a incarnare lo scranno del potente. Non discorsi dinanzi al popolo, ma talk show in cui vengono decise le Sorti del Mondo. Tutto diverso dal tempo dei re e delle regine e dei complotti shakesperiani. Ma in realtà poi le cose non sono mica tanto cambiate.

Riccardo lo Storpio, Riccardo il Brutto, Riccardo-Che-Nessuno-Vuole, diventa Re Riccardo. Un uomo che sa conquistare una donna di cui ha bisogno di essere il marito solo perché lo vuole. Un uomo che sa uccidere dei bambini, perché gli sono di ostacolo. Un uomo che sa convincere coloro che vanno convinti, perché è il suo desiderio. La sua volontà gli permette di avere quello che vuole. Lo deve semplicemente volere. S’accorge di essere quel tipo d’uomo che se solo vuole qualcosa, e se lo mette in testa, ottiene quel qualcosa esattamente come lo vuole. E nessuno intorno se ne accorge. Almeno per un po’. Straordinaria quella scena nella quale, luci accese improvvisamente in sala, Riccardo si chiede chi sia con lui, e ricorda che chi non è con lui è contro di lui, e chiede al pubblico di alzare la mano… e lo richiede ancora… e poi silenziosapete che è successo? Il pubblico l’ha alzata, io l’ho visto.

Sangue, insidie e inganni verranno portati avanti. Le prove vengono infangate, in cambio di un IPhone ci si fa corrompere, basta una buona comunicazione social e la gente ti ama. Anche se, come dice Riccardo, lui ama il popolo… fino a quando lo segue e non ha un’opinione sua. E intanto sale una musica inquietante che, a tratti come un sordo ronzio, accompagna la vicenda. E in un angolo del palco si ammonticchiano i sacchi neri porta-cadaveri, uno sull’altro, e la pila si fa sempre più alta. E alla fine Riccardo cadrà morto su quella pila. Ma arriverà un altro a regnare al suo posto, la moglie del fratello. Che per portare la pace… ordinerà tutta una micidiale serie di armi. E si siederà sulla poltrona/trono. Il potere è come il mostro mitologico che porta il nome di Idra: gli tagli una testa, gliene ricresce un’altra. Sempre.

Vedere Riccardo III m’ha fatto capire una verità molto importante su certe persone. E cioè che certe persone vogliono essere quelli che decidono. Che comandano. Non che seguono. Ma quelli che scelgono. E che sono seguiti. E lo hanno sempre voluto, cercato, desiderato, dentro di loro. E quando lo capiscono, si rendono conto che per loro è impossibile vivere in un altro modo diverso da questo. Sono dei mostri quelle persone? Sì. Lo sono. Ma tutti lo siamo. 

Lo sono quelli che li seguono, quei mostri. Lo sono quelli che si oppongono, solo perché vorrebbero esserci loro, su quel trono. Lo sono quelli che li debellano e li fanno crollare, ma solo per poterli sostituire. Lo sono quelli che tessono le loro trame perché devono “fare del bene” e quel mostro che si è preso la corona non sua, beh, “lui non fa il bene”… ma poi non sanno neanche loro cosa sia il bene, in realtà. Lo sono, infine, quelli che se lo ritrovano lì, e magari non danno neanche ragione a quel mostro, ma in fondo che possono farci loro? Va bene così, e si girano a guardare da un’altra parte. Tutti mostri, dal primo all’ultimo. E per la maggior parte pure inconsapevoli. Riccardo, almeno, lo era. Consapevole. Perfettamente consapevole di quello che aveva fatto, ordito, pensato. E perché aveva fatto tutto questo. Lo ha fatto perché voleva quel potere, e poteva prenderselo, perché lui era quello che non contava niente, quello che stava nell’angolo, quello che nessuno manco considerava perché mai e poi mai lui avrebbe potuto regnare. Lo scrittore Mark Twain una volta scrisse: «Non sono le cose che non sai a metterti nei guai. È quello che dai per certo che invece non lo è». Era certo che Riccardo era un nessuno. E così l’ha messa in quel posto a tutti. Anche a se stesso, alla fine. Sì, perché anche lui non sapeva chi fosse. Non sapeva chi fosse veramente. Si può avere paura di se stessi?, si chiede, tremando e impazzendo, oramai solo, senza più nessuno, mentre arrivano per farlo fuori, al termine di questo eccezionale adattamento. Sì, Riccardo, si può. 

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