DI ELODIE VUILLERMIN
Ah, Dumbo… quanto ho amato il rapporto tra il cucciolo e la madre, e quante lacrime ho versato in più di una scena. Vi sareste mai aspettati che questo film fosse tratto da una storia vera? Io no.
Tutto cominciò nell’Inghilterra vittoriana, quindi nei primi dell’Ottocento. A quei tempi la nazione inglese era ancora una potenza industriale in continua espansione. Da una delle sue colonie, il Sudan, fu portato nel 1865 un elefantino di nome Jumbo. Egli era nato nel 1860 e sua madre era stata uccisa da un bracconiere, Taher Sheriff. Proprio quest’ultimo comprò il cucciolo e lo vendette in seguito a Lorenzo Casanova, un commerciante italiano. Da lì Jumbo venne spedito in Germania, poi in Francia e infine nello zoo di Londra. Qui divenne presto l’attrazione più popolare, soprattutto tra i bambini, per le sue dimensioni, tali che in molti cominciarono a chiamarlo l’elefante più grande al mondo.

Ciononostante Jumbo viveva in condizioni pietose. Era spesso vittima di maltrattamenti da parte dei suoi padroni: veniva frustato, lasciato a farsi divorare la pelle dai ratti (di cui aveva una grande paura) e peggio ancora. Lo stress accumulato lo rese violento: se di giorno era mansueto e amichevole con i bambini, di notte diventava aggressivo e distruttivo. In più occasioni arrivò a rompersi le zanne contro il recinto di pietra e, quando queste gli ricrescevano, le sfregava contro le sbarre della sua gabbia. Per giustificare questo suo comportamento, il direttore dello zoo di Londra, Bartlett, disse che la colpa era degli ormoni, poiché Jumbo stava attraversando la pubertà. Vicki Fishlock, ricercatore di elefanti con sede in Kenya, smentì questa tesi dicendo che, se davvero fosse andata così, Jumbo avrebbe aggredito anche i suoi custodi, cosa che non accadde.
Matthew Scott, l’ultimo proprietario di Jumbo, ne racconta la storia in un’autobiografia, dal titolo Jumbo’s Keeper: The Autobiography of Matthew Scott and His Biography of P. T. Barnum’s Great Elephant Jumbo. Pare che l’animale gli venne consegnato in condizioni pietose e disumane. Ecco una traduzione sommaria di quel che Scott riporta:
La povera creatura era piena di malattie, che si erano fatte strada sulla pelle dell’animale e avevano quasi divorato i suoi occhi. Gli zoccoli dei piedi e la coda erano letteralmente marci e l’intera pelle era ricoperta di infezioni. […] L’ho osservato e medicato giorno e notte con tutta la cura e l’affetto di una madre (se fosse possibile per un uomo fare una cosa simile), finché, a furia di medicarlo a partire dal punto più interno della sua struttura, ho rimosso tutta la sostanza malata dai suoi polmoni, fegato e cuore.
Scott si accorse presto che Jumbo, come ogni animale in cattività e quindi incapace di esprimere la propria natura, non sarebbe mai stato felice da solo. In alcuni passaggi sottolineò come l’elefante andasse alla ricerca spasmodica di acqua e sentisse la mancanza di un suo simile. Di fronte alla tristezza della creatura, chiese se fosse possibile portare un’elefantessa allo zoo e così avvenne. Il suo nome era Alice e al suo arrivo Jumbo si eccitò come un bambino innamorato. La amò con sincerità e lei contraccambiò appieno. I due vissero insieme per ben 17 anni.
Scott testimoniò di non aver mai visto una dimostrazione di rispetto e affetto più profonda di quella di Jumbo per la sua Alice. Dedicò un intero capitolo dell’autobiografia ai momenti in cui portava gli elefanti al fiume, perché potessero farsi il bagno e avere un po’ di libertà.

Tuttavia, questo idillio amoroso non tardò a finire. Jumbo fu comprato da Phineas T. Barnum (sì, quello di The Greatest Showman), che pianificava di portarlo in tour negli Stati Uniti, con l’intenzione di trasformarlo in una celebrità. Ma gli inglesi, tanto affezionati a Jumbo, protestarono con fervore, tramite lettere e manifestazioni; i bambini arrivarono addirittura a scrivere alla regina Vittoria, implorando che Jumbo rimanesse in Inghilterra. Uno sforzo ammirevole, ma purtroppo inutile. Barnum si portò via Jumbo.
Per Alice fu un duro colpo. Stando a quando scrisse Scott, fu insopportabile sentire i versi di agonia dell’elefantessa mentre veniva separata a forza dal compagno. Alice non si riprese mai dal lutto, precipitando in uno stato di apatia e depressione. Scott, che continuò a seguire Jumbo anche negli Stati Uniti, sentiva la necessità di far riunire Alice e Jumbo: era straziante vedere quei poveri pachidermi senza la possibilità di comunicare a distanza.
Ma la riunione non avverrà mai. Mentre Alice perì in un incendio, Jumbo fu investito da un treno in Ontario, Canada; morì nel 1885 dopo quindici minuti di agonia, coccolato per l’ultima volta da un devastato Scott. In tutto questo Barnum provò a sfruttare la morte dell’elefante per innalzare ancora di più la sua popolarità, tramite una fake news in cui Jumbo era ritratto come un eroe sacrificatosi per salvare un elefantino. L’unico a cui importò davvero dell’animale fu proprio Scott: un piccolo conforto in una vita d’inferno.
Sono fiero del mio ragazzo, “Jumbo”. Ogni esperienza condivisa con lui è un piacere per me, e un grande ricompensa, e di questo ringrazio i miei giorni più vecchi.
(Jumbo’s Keeper: The Autobiography of Matthew Scott and His Biography of P. T. Barnum’s Great Elephant Jumbo — My Biography, capitolo 4)
L’archeologo Richard Thomas dell’Università di Leicester, colui che analizzò lo scheletro dell’elefante dopo la sua morte, notò sui fianchi un’insolita sovrapposizione di strati di ossa nuove e vecchie. Come spiegò in un documentario della BBC: “Sono segni di lesioni che il suo corpo stava cercando di riparare. Queste ferite devono essere state incredibilmente dolorose e sono il risultato del peso che Jumbo ha dovuto trasportare, camminando: interi gruppi di visitatori”. Questo peso ha causato anche ferite al ginocchio. Nel complesso, le ossa di Jumbo sembravano più di un elefante di 40 o 50 anni, che di 24 (la sua effettiva età).
Le stesse analisi dimostrarono che Jumbo aveva caratteristiche fisiche insolite: era alto 3,45 metri, molto più dei suoi simili, e possedeva orecchie enormi. I suoi denti erano deformati, a causa di una dieta a base di dolci, quelli che i bambini gli offrivano. “Gli elefanti hanno sei denti, ma solo uno su ciascun lato e si consumano in un determinato momento”, spiegò Thomas. “Quando il dente cade, nasce un altro dente per sostituirlo, ma se il dente vecchio non si consuma abbastanza non cade, provocando la deformazione del nuovo dente”. Quindi Jumbo soffriva di un mal di denti costante, un dolore che peggiorava ogni notte, rendendolo violento.
Holly Miller, ricercatrice dell’Università di Nottingham in Inghilterra, analizzò la coda di Jumbo, unica parte rimasta dopo che un incendio distrusse i suoi resti. In essa trovò elevate quantità di azoto, ulteriore conferma che l’elefante non era sano e non ha ricevuto l’alimentazione giusta.
Il rapporto tra Jumbo e Alice raggiunge la stessa profondità di quello che abbiamo visto tra Dumbo e sua madre nel classico Disney. Le due storie hanno indubbiamente tanti punti in comune: entrambe le coppie si amavano con tutto il cuore, ma per colpa di uomini (e anche animali, nella versione Disney) crudeli furono separati e questo li devastò. Sia Dumbo che Jumbo ebbero un solo amico su cui contare: per Dumbo fu il topolino Timoteo, per Jumbo il suo Matthew Scott. Come Dumbo, anche Jumbo aveva delle orecchie enormi, un elemento centrale nella rivalsa dell’elefantino disneyano, che da simbolo di derisione e vergogna diventano il mezzo fondamentale per giungere all’happy ending (quello che il povero Jumbo si meritava e non ha avuto).
Anche la scena in cui Dumbo si ubriaca per sbaglio (i famosi Elefanti Rosa) non è casuale. Pare infatti che il vero Jumbo, mentre era proprietà di Barnum, sia stato sedato con elevate quantità di alcol, perché fosse più mansueto. Gli venivano dati champagne, whisky e biscotti imbevuti di alcolici. Ogni giorno.
Il povero Jumbo è stato vittima di una società che considerava il maltrattamento degli animali la norma, dove l’avidità umana aveva la precedenza su ogni cosa. Si meritava di meglio.
Riposa in pace, Jumbo.

