L’insostenibile pesantezza di essere bipolari

DI GIULIA FOSCHI

Che cosa vuol dire essere bipolari? Sempre che io lo sia veramente, dice la psicologa.

In verità non è che sappia io stessa spiegarlo così bene, però posso provarci in base a quello che finora ho capito. Di base ci sono io, a dover ricostruire la mia identità. Ci sono io a dipingere il quadro della mia patologia, anche documentandomi su di essa, per poi poterla raccontare agli altri. Perciò iniziamo questo racconto e facciamolo con un’immagine. Essere affetti da bipolarismo è un po’ come stare su delle montagne russe emotive, cavalcare onde più alte del normale. Se per le persone sane, prendendo questo termine con le pinze, il mare della vita è fatto di onde della portata pressochè sempre uguale, con alti e bassi accettabili per il corpo e per la mente, ecco che per noi bipolari questo non avviene. Del resto la natura ci insegna che nemmeno la risacca si comporta in maniera sempre uguale, basti immaginarsi violente tempeste o calme piatte. Nei momenti “up”, potremmo dire quei momenti sulla cresta dell’onda, la nostra vita ci sembra sempre eccezionale: grandi idee creative accompagnate spesso da pessime scelte nella vita quotidiana. Letteralmente ci si sente potenti come dei, mentre invece noi non siamo che semplici e bellissimi umani. Ogni momento “alto”, ahinoi, è sempre accompagnato dalla sua controparte infima, fatta di paralisi, ansia, depressione. Nel mio caso più volte mi sono immaginata, in questi momenti, come una culturista intenta a dover sollevare il più pesante tra i bilancieri; così mi sentivo in quelle fasi in cui sul mare non si increspava nemmeno un’ondina. In questi periodi, che possono essere più o meno lunghi, noi bipolari assomigliamo tanto a dei vegetali, e anche la cosa più semplice come alzarsi, camminare, purtroppo anche lavarsi, diventa un’impresa difficilissima da sostenere. 

I medicinali, ma non solo quelli, ci aiutano a stare nella normalità, fatta di routine e scadenze. Le pasticche colorate che assumo hanno l’obiettivo di calibrare le sostanze presenti nel mio cervello, di cui noi siano inesorabilmente in deficit. Ci aiutano a colorare entro le righe, cosa che a noi non è che piaccia più di tanto. Capirete anche voi che dopo essersi sentiti come dei scesi in terra, in una visione del tutto distorta della realtà, ovviamente, la normalità ci fa reagire un po’ con un “Meh, mi aspettavo qualcosa di meglio”. Avvenimenti che lasciano a bocca aperta e fanno emozionare persone senza deficit psichici, a noi lasciano sempre un po’ con l’amaro in bocca, e penso che questa sia forse la cosa più triste della nostra patologia. La vita, fatta della sua abitudinarietà anche, e delle sue semplici e piccole cose, è bella. Stare nel presente, godersi ogni attimo senza che le nostre idee cavalchino come puledri impazziti in una brughiera, è fra le cose che più ci infonde pace e serenità. Questo per noi risulta molto difficile. Perché in effetti pur essendo il nostro corpo vivo e presente, la nostra mente resta sempre un po’ altrove, trovando un’immensa difficoltà nel dover indossare i panni del “qui e ora”. Abbiamo menti molto veloci, e poi spesso molto lente, senza un reale equilibrio. È difficile un po’ per tutti, tra le infinite faccende che occupano le nostre meningi, ma per delle menti rumorose e frizzanti come le nostre lo è un po’ di più. Guardo il grafico che mi ha disegnato la mia psicologa e cerco di capire su quale tratto delle montagne russe io sia, se in picchiata o in risalita, se sia finalmente tornata alla normalità, anche se un po’ mi annoia, o se sia ancora dentro il mio baratro. Ovviamente sostanze che alterano le mia capacità psichiche non aiutano, e di per sé quasi tutte quelle a cui ruota attorno la vita sociale al giorno d’oggi. O perlomeno la vita sociale che finora ho conosciuto io. L’alcol, in primis. Quand’è che mi sono dimenticata il piacere di gustarmi un bicchiere di vino e fermarmi a quello? Senza andare oltre al primo calice. Forse non l’ho saputo mai, forse non ho mai provato cosa voglia dire non andare oltre il limite delle onde della vita. Perché superato quel limite tornare è una cosa davvero difficile, risucchiato nel turbine delle onde. Ora partecipo a dei gruppi in cui analizziamo il fatto di esternare o meno la nostra patologia agli altri: sarei poi in grado di metabolizzare le conseguenze di questo mio coming out? In realtà vivendo in un piccolo paese tutti sanno quello che mi è capitato, il mio ricovero passato, la mia ripresa, i miei alti altissimi e i miei bassi bassissimi. Non so se mi è piaciuto che in tante persone ne siano venute a conoscenza, e che in mia assenza abbiano magari detto la loro su una cosa che forse nemmeno conoscono appieno. Io stessa solo ieri sono venuta a conoscenza di tanti aspetti della mia personalità che ignoravo, alla soglia dei trent’anni. Questo a riprova del fatto che non si smette mai davvero di conoscersi, e che ogni persona non è semplicemente un mondo, ma un universo di galassie inesplorate. E allora provo a scriverlo, afferrando il bilanciere a due mani, nella speranza che nel farlo i muscoli si facciano più forti, a sollevare nuovi pesi. L’insostenibile pesantezza di essere bipolari. In effetti queste cose le sto scrivendo proprio per alleggerirmi.

Ovviamente ci sono dei piccoli escamotage per capire quando io stia per superare il limite accettabile, quando mi stia per spingere troppo in alto sull’onda, come un surfista noncurante del pericolo o al contrario troppo in basso verso l’abisso, come un palombaro a cui improvvisamente viene a mancare la sua scorta d’ossigeno. 

Questi campanelli d’allarme, in gergo tecnico chiamati “prodromi”, sono tutti quei comportamenti cronici che fanno parte della mia patologia e che mi avvisano del fatto che io stia esagerando, in certi comportamenti ossessivi, tra cui purtroppo rientra anche la scrittura. Ogni attività deve essere un piacere, altrimenti che senso avrebbe portarla a termine? Escludendo il lavoro, in cui dobbiamo spesso scarificare le parti più libere e spensierate di noi. E quindi eccomi, mattaccia, perché è così che in famiglia mi chiamano; questa infinita leggerezza nel descrivermi mi fa stare meglio, senza compassione alcuna nei confronti di ciò che io tutto sommato sono.

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