DI MIRIAM PAOLETTI
“E neppure ho bisogno di prendermi cura della mia anima, sarà lei che fatalmente baderà a me, e non devo fabbricarmi un’anima; devo appena scegliere di vivere. ”
Ti parlerò, e tu dovrai credermi.
Mi crederai, perché non ho più motivo di mentirti e perché voglio che le mie parole siano la sincerità
del mio pensiero disorganizzato: la sua copia trasparente.
Ti parlerò.
L’indeterminatezza è un concretizzarsi languido di variabili possibili nella mente impreparata a sopportare, nel pensiero che respinge il ragionamento perché non vuole sapere o perché non può capire l’emozione. Sapere fa troppo male – sapere davvero quel che ci si dice di volere conoscere – paralizza la mente e la distende, ne distribuisce la manciata amara, goccia per goccia, su di un terreno non visto: dov’é questa porta di cui posso constatare la posizione, scorrendo le dita lungo la sua superficie legnosa intervallata da nervature metalliche e fredde? Dov’é questa dannata porta che io voglio aprire? Sono davvero io che non la voglio aprire? Una mano tenta di stringere la chiave, l’altra cerca la serratura, ma ce n’é una terza, in me, nascosta, celata alla supremazia della volontà visibile, che si intrufola nelle intersezioni, nelle nervature del legno, e si pone dall’altra parte, oltre la porta; così facendo spinge nella direzione contraria e mi nega l’accesso; ma se sono io stessa quella mano, non posso ritirarla in me?
Il dolore non è concepibile quando è vissuto: lui ha creato quella mano, contro quel che la mia volontà pretendeva. Per me, d’altro canto, non ce n’era bisogno, di un sostegno per render inaccessibili gli spazi della mente in cui la mente non vuole più tornare. Tornerò? Tornerò da me, in me?
Devi sapere che dico la verità, devi credere a queste mie parole: io, ora, voglio soltanto più tornare.

Vorrei solo rientrare, ora. Lo so, lo so che prima – forse posso tentare di ricordare i secondi nella mente mentre cercavo di sviare l’attenzione catturata dal cuore – non volevo più tornare: volevo scivolare al di là da me oltre il guscio di questa presenza. Volevo scappare e salvare ciò che di me poteva essere strappato al lento risalire della cancrena, per condurlo nello spazio luminoso e libero della bellezza: volevo non sentire più, il corpo, il pensiero, non volevo credere alla spontaneità del mio sentire, poiché significava immergersi nell’ossessione, voler morire. Non posso che domandarmi a proposito di quella intensità: ricordo scene, serbo sprazzi delle immagini di quei secondi contati nella mente – o della mia distanza che chiedeva di contare, mosaici di inquadrature verso cui la vista annebbiata si dirigeva arrampicandosi goffamente, inesorabilmente disillusa da sé, massimamente illusa da ciò che stava fuori; come potevo pensare che bastasse l’erompere di una luce per salvarmi?
Ripenso o provo a ripensare ai secondi contati, e non so se è vero dirti che non posso ricordare: non so se non posso o se non voglio, e non conosco cosa o chi in me non possa o non voglia: quale parte?
La mia mente mi respinge con questa nebbia insopportabilmente bianca. Se non posso ricordare e se la mia mente mi blocca l’accesso, allora il dolore era davvero intollerabile? Perché, mentre era in me, io mi denigravo, rimproverandomi di non riuscire a vivere come chiunque, rimproverandomi di star solo giustificando il mio dolore, come se questo fosse colpevole di esistere così intensamente?
Eppure conosco la risposta, poiché ora, ora che la porta è così chiusa, ora che ne vedo gli effetti, mi sorprendo di quanto male mi sono procurata; mi stupisco di quanto, il fatto di non voler accettare il dolore, di non volermi vedere nella sofferenza, disconoscerla, ritenerla qualcosa di diverso da me, possa aver causato tutto questo.
Non sono più in me, ora. Eppure dovrò cercare un sentiero per cui si possa tornare a casa, si possa voler tornare a casa. Ora lo voglio! Lo voglio! La mia mente chiede a sé stessa di tornare, e mostra a sé stessa l’eco quieto della gioia d’essere me, d’essere in me: ora voglio vivere, posso tollerare il dolore! Fammi rientrare: so, adesso, che la distanza da me è l’ossessione derivata dalla paura, e non è verità, non è verità.
Se è verità, è vero nel modo dell’ossessione, non come qualcosa che esiste, non come è vera la sensazione del corpo.
Il silenzio, dall’altra parte della porta, è sinistro presagio di morte: non vorrei che, ciò che era al di là, si sia ormai sgretolato; temo d’essermi già distrutta. E per cosa? Sono quasi tentata di denigrarmi di nuovo per quanto ora posso concepire ridicolo il motivo della mia morte apparente, della morte di una parte di me. Ma no, mento, e tu lo sai: lo posso capire, poiché rispetto l’autenticità manifestatasi nella sua intensità; rispetto ciò che sono stata in grado di tollerare, a prescindere dalle concrezioni oscure che da quel momento si sono sviluppate nella mia mente. Sento ora, come una risoluzione imminente che durerà ancora lungo questo dorso nudo del mio respiro, dalla quale colgo un movimento oppositivo; è la mia ostilità verso questo problema: io non voglio più essere questo male, non voglio più che mi ostruisca la testa; soltanto ora, nell’intuizione vaga e incerta, a cui il ragionamento miscredente non può credere, avverto la convinzione della bellezza della mia testa: mi starò convincendo di un’altra organizzazione? Posso credere all’intuizione? Al nome soltanto ascoltato che si sillaba al di là del mio sguardo ma che può essere toccato, toccato e voluto, dalle dita divenute ali?
Dentro di me si celerà la stessa meraviglia che i miei occhi possono cogliere al di fuori di me? Posso fidarmi di questa edera che si arrampica lungo le mura del mio cranio? Posso non disconoscer questo modo in cui mi so essere e che sento appartenermi più di tutta quanta la serietà solidificata come fondamenta delle costruzioni degli altri?
Non avrò più paura, non costringerò più questo paio d’ali, permetterò al fiore di schiudersi verso la luce, e non importa se esisterà solo per me o se vivrà solo per me: questo modo d’essere è la mia mente? Non importa solo che io voglia che sia la mia mente? O m’illudo ancora e costruisco un’altra forma di cui non posso fidarmi, un altro ordine che è evoluzione di una disorganizzazione? Ma cosa dovrei fare, credere a quel che vedo fuori di me, a questa realtà così impersonale o arrendermi al subire la disorganizzazione? O piuttosto viverla, questa disorganizzazione, e vedere cosa ne vien fuori: dalla mia mente possono accostarsi parole e colori con cui dipingere la vita: dovrò continuare a nasconderli, avvertendo il freddo della normalità che cerco cerco e che mi è estranea, o potrò fidarmi, ora, permettere che una parte di me tocchi l’altra parte di me?
Non è esatto domandare, nella misura in cui sia io che te conosciamo la risposta. Eppure il mio parlare è un domandare. Un domandare della vita che vuole. E so che fra un attimo, già non potrò capire quel che ora intendo.

Voglio essere la plenitudine del mio essere, dovunque essa mi porterà. Una volontà amara mi muove o prende le redini di questo pensiero. Sento che tutto il mio inferno è stato la preparazione alla vita, la concrezione invisibile di quanto io posso chiedere alla vita. Che dolce sensazione… potrei quasi ingoiarla, per non lasciarla andare, scivolare oltre me. Non voglio che si affievolisca: a tratti temo che tutto questo scenario di pace e valli soleggiate, percosse e inumidite dalla stessa brezza che in cielo trasfigura le nuvole, tutta questa impalcatura crolli, e con esso i tendaggi, le quinte, le assi disallineate, le poltrone rigonfie dell’assenza di qualcuno che veda, e quindi cada nuovamente nel buio. A tratti lo temo, ma so che non sono io a temere, non sono io ad avere paura della paura, ma è il dolore che parla in me; possiede la mia voce e si muove con i miei passi, stringe gli oggetti che io afferro e a volte le persone pensano che sia io – o sempre l’hanno pensato, eppure non sono io: esso è la mia distanza da me. E io temo che rimarrò in questa distanza che io stessa mi sono creata, per sopravvivere, e che io stessa voglio ora colmare, per vivere.
Tanto dolore non è per nulla.
Tanto dolore non è per nulla, e questa esistenza a volte è così fredda senza di te, senza il sogno che potrei avere di te se solo ti conoscessi o se solo potessi concepirti. Ma questo è il sogno della disorganizzazione che vorrebbe essere organizzazione e che perciò, scoprendosi disorganizzazione, teme: tu sei il prodotto della paura di tutte le cose.
Si possono guardare tutte le cose muoversi, e vedere in loro una organizzazione che loro stessi vedono e accolgono come se non fosse organizzazione; è ciò che essi sono, è quel che loro stessi sentono di essere, è la coincidenza della loro vita con sé stessa. Come un abito indossato, l’organizzazione preme delicatamente sulle spalle nel momento della loro ennesima scelta, e sono loro, loro a muovere il passo in un verso anziché in un altro.
Tuttavia è organizzazione, non verità: il dolore è organizzazione, la paura è organizzazione, la rabbia è organizzazione, l’organizzazione che si è che si scontra con la coincidenza di un’altra scelta, con l’avvenire di quel che la forma non comprende in sé, il loro contrastarsi. C’é un modo in cui ci si blocca, si smette di respirare o di emettere suono, ci si rintana in un cantuccio dove liberare la propria organizzazione quando questa è massimamente contraria a quel che c’è fuori, la si tocca la si respira e ci si sente nella realtà, mentre quel che è al di fuori è lontano da questo luogo; è incomprensibile accadere di cose a cui bisogna dare un senso allineato con la nostra forma, per non averne paura. Quel che è al di fuori è la continua mancata coincidenza della scelta, la quale è quel che ogni volta non vorremmo: vorremmo poter estrinsecare la nostra organizzazione e veder che gli altri sono quel che noi vogliamo che siano, perché li riconosciamo come il terreno in cui radicarci, lo spazio che corrisponde al bisogno che la nostra organizzazione
suggerisce; vogliamo che la scelta degli altri coincida con la nostra forma, cosicché possiamo radicarci in altro da noi, ed il bisogno sono le nostre radici, ed il terreno è la presenza dell’altro, ed il muoversi delle radici avviene nell’inconsapevolezza che esso sia un muoversi di radici, un risucchiare la carne di cui si ha fame, tralasciando il resto del corpo. Non vogliamo l’altro, vogliamo quella sicurezza che l’altro in noi è dal momento che le nostre radici penetrano in lui e risucchiano ciò che è in funzione del bisogno che ne abbiamo. Vogliamo il nuovo perché le persone non possono coincidere col bisogno che abitava in quel che vedevamo di loro, e scoprendo l’irriducibilità delle persone al nostro bisogno, intuendola oscuramente, non vogliamo esserne consapevoli: ed allora nuove nuove ricerche e nuove nuove aiuole in cui mettere le radici. Ma c’é stato un punto in cui le mie radici non sono sprofondate, loro, che volevano penetrare nel terreno più di qualunque altra radice, per attingere dagli altri quel che la mia cancrena, il mio cratere, distruggeva. O piuttosto, perché ho intuito un punto, che allora le mie radici non sono più sprofondate, e adesso non possono più essere l’emozione per cui prima sprofondavano disperatamente in altro da sé, non posso più volere qualcuno come prima sentivo di dovermi necessariamente radicare in qualcuno. È un punto di verità, laddove questa si distende come quando quella luce che filtrava dalla finestra scostata toccava tutti gli oggetti, e li sospendeva, e li avvolgeva di una morte che è la vera vita delle cose: ed io guardavo questa dilatazione in cui il modo normale degli oggetti si rompe, si spezza, e scricchiola sotto il peso della leggerezza della luce, e vi ero soltanto io, con la luce e gli oggetti di luce. Ed allora mancava il tempo, quello produttivo, quello della organizzazione, quello della forma, delle radici; manca quel tempo, perché ora c’è quella luce ed il movimento verso l’alto, solitario, disinteressato, pacifico, del pulviscolo, questo semplice esistere così indifeso e sacro.
È il non radicarsi.
La verità era serbata in questa immagine della mia infanzia, ed il punto è il ricordo che s’incaglia nella sospensione. Esisto così, ora. La mancata coincidenza della mia scelta non minaccia più la mia organizzazione, perché ora sono disorganizzazione, una disorganizzazione consapevole d’essere disorganizzazione e che non cerca disperatamente di ficcare la proprie radici in qualcuno, disconoscendosi in quanto disorganizzazione. Questo è un poter vivere compenetrati della stessa fiducia che in altri uomini è la fede in un Dio – fede nell’esistere puntuale della provvidenza in ogni istante di tempo di questa vita – e che in me, questa fiducia nello scostarsi delle porte, è l’accettazione della mancata o non mancata coincidenza, comprensione della impalcatura attorno alla mancata o non mancata coincidenza, conoscenza di queste due scelte che coincidono o non coincidono. In me è il capire e poi il rispondere: la possibilità di una nuova risposta differente da quella che prima sarebbe stata la risposta derivata dalla scelta che ora è rivelata come mancata.
Tutto ciò, credimi, è moltiplicazione indefinita di possibilità d’essere non arbitrarie ma connesse e legate al filo conduttore della mia coerenza interna, della necessità derivata da questo plasmarsi di disordine.
Le scelte non si distendono se non da questa disorganizzazione che si armonizza col tempo, e mostrano, mi parlano di questo venire fuori di esistenza mia, di vita mia, da me esistita e provata nella necessità.
Ora, ora che vedo il prolungamento della mia vita, come aver ancora paura di tutte le cose? “E la terra è il sole, come avevo potuto non accorgermi fin da prima che la terra è il sole?”.
Ora che sai, ora che ti ho parlato, ora che ti ho fatto esistere, ora, dovrai morire in me, poiché la tua pelle è ancora intessuta della mia paura, “chi, come me, stava chiamando la paura amore?”.
Ma ci sarà il tempo in cui crescerai di nuovo con un’altra pelle, e i tuoi occhi e le tue mani e le parole saranno l’amore neutro di una vita, l’amore neutro che è “quegli intervalli in cui credevamo che l’amore si fosse fermato”.
Ora che sono immersa nell’abisso, posso amare l’abisso di cui sono fatta e posso amarti di questo amore neutro che è l’abisso di cui siamo fatti.


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