Cos’è che esigi dalla vita? – Sulla strada (Jack Kerouac)

DI MIRIAM PAOLETTI

“È così che voglio essere io. Voglio essere come lui. Lui non è mai impacciato, va in tutte le direzioni, non si tiene niente dentro, ha la nozione del tempo […] Vedi, se si fa sempre come lui, finalmente si raggiunge quella cosa.”

La mia storia con Kerouac è sempre stata, eppure la mia mente ricorda un inizio.

Questa storia non custodisce un principio nel tempo plateale, vistoso, di quelli limpidi che abbagliano la memoria: non è capace di trasmettere una solidità al ricordo, affinché si possa identificare l’esperienza col senso attribuito al fatto. È sempre stata, e la sua vaga annunciazione si è protratta negli anni appesa ad una mensola, senza discendere nel punto esatto in cui mi sporgevo in punta di piedi per percorrere con lo sguardo quella linea di titoli impilati l’uno di fianco all’altro, con la tenue speranza di pescarvi un tesoro celato, qualche libro non ancora letto.

La mia casa è rigonfia di libri dispersi; libri miei, libri donatomi da mio zio, libri dei miei genitori, di quelli da me scovati nelle occasioni inattese e puntuali e di quelli rubati dalla libreria polverosa di quell’uomo che nella circostanza di un’altra vita mi sarà dato conoscere, seppure, nell’oggi, io debba consolarmi notando la coincidenza dei nostri occhi, in tempi diversi, sulle stesse scritte, e la comunanza delle mani, raccolte attorno alle stesse pagine. 

Kerouac mi guardava dalla mensola, ed io non gli rispondevo, ormai abituata ad essere osservata dai due ragazzi in bianco e nero, pendenti verso sinistra, con le mani infilate nelle tasche. Tuttavia mi accadde di incrociare il suo sguardo, nella concomitanza necessaria disegnata da qualche misterioso dio, quando l’unica e ultima promessa di chi annunciava il viaggio, venne stipulata sulla carta dei pensieri di Kerouac; cosicché quelle parole divennero presagio di cieli sul crinale del giorno e di mondi rovesciati e capovolti nel vuoto, percorsi da creature con le menti troppo veloci per poter essere solo uomini e con le ali troppo stanche per poter essere anche angeli. Dalla finestra da cui si poteva vedere la luce rossastra dell’ora dei felici, un angelo mi pose il libro sulle mani giunte.

E così, io e Kerouac, ci conoscemmo, e la nostra storia senza origine ebbe un inizio fittizio: la finzione della nascita di un reale che già esiste e che è già stato generato, ma la cui altra possibilità, in bilico al di sopra dell’effettivo, sarebbe la negazione della necessità fortuita che ora, nella mia mente, ha quel titolo. 

La nozione del tempo è il succo sotterraneo di tutto ciò che lessi. 

Siamo assuefatti alla vita per il solo fatto di esserci, ma il suo sapore è fagocitato “senza mai sognare la stracciata pazzia e la ribellione della nostra vita reale, della nostra notte reale, l’interno di essa, l’insensata strada piena d’incubi”; c’è l’abitudine a calpestare le vie che non renderemo capitoli della nostra esperienza, c’è l’abitudine a spingersi dalla prima alla – forse – ultima lettera di questo parlare che non renderemo il pensare di un’anima, c’è l’abitudine al silenzio, al suono che hanno le cose morte, che, ancora una volta, non renderemo pace. 

Mi stupii della frenesia descritta nella vicenda e della pazzia che palpitava dalle parole stesse e scaturiva nella loro successione: perché in una pagina la negazione del cielo in virtù dell’avvento della morte – “la morte ci raggiungerà prima della morte”?, perché ammonire “la pace arriverà all’improvviso, ma non capiremo quando questo avverrà”? – per poi contraddirsi affermando spasmodicamente che tutto sta per arrivare, giungerà il momento in cui sapremo ogni cosa, che questa mia emozione sarà decisa, che questo mio attimo è deciso, che quella promessa fu stabilita, che tutto quel che conosceremo e che avremo conosciuto sono una cosa sola, che la vita è la corsa all’interno del suo stesso involucro, che questo vissuto, tutto, quando ritornerà a noi con un nuovo ordine logico, allora potremo discernere le cose, mentre sputeremo alle stelle parole che hanno il sapore del vino, bevendo felicità, e che capiremo tutto e molto di più di quanto esiste ed è presente, seppure bisognerà dialogare con questa miserabile e, a tratti, euforica strada invisa a Dio, cantando canzoni d’amore e chiedendoci di chiudere gli occhi, raccontando intanto di quando poi li innalzeremo al cielo verso le stelle e vedremo ciò che neppure Dio potrà assaporare mai, mentre, al contrario, le nostre anime potranno scorgere, fintantoché risiederanno in questo buco sul cofano di questa macchina: “che il cielo esista, anche se il nostro posto è l’inferno”.

“mi contraddico?

Ebbene mi contraddico… io sono vasto, contengo moltitudini”

Si può magnificamente pensare meraviglie, e la chiave sono le parole con cui vediamo questo esistere, le immagini che scorrono lungo i nostri occhi e popolano i pensieri. Il centro occulto non può che collocarsi al di fuori di noi, oltre noi; tuttavia, mi contraddico, perché, con l’esattezza dell’azione di un dio, affermo la necessità che tale centro persista nel nostro pensiero segreto: la chiave è dentro e fuori di noi, ed impiegheremo l’intera nostra vita nella sua ricerca per poi stupirci d’essere giunti al punto da cui eravamo partiti. 

Per raggiungerla, saremo costretti a percorrere gli antipodi di questa desolata terra strangolante, per scoprire che, seppure tale fulcro sia presente nei nostri occhi, senza questa strada non potrà estrinsecarsi. 

Per scoperchiarla, saremo costretti a sorprenderci di essere ciò che vorremmo; nel viaggio, ci accorgeremo di aver vissuto l’ineluttabile rete, intessuta della coincidenza accidentale di fatti, azioni, emozioni, che non può essere equivocata o rimpianta perché è la nostra esistenza; saremo costretti a correre nella cenere di questi istanti, frantumando di volta in volta le infinite concrezioni dove le storie degli eroi esistono, avvertendo, nella bocca, un gusto amaro di cose perdute.

Ricordo che, leggendo i pensieri con cui Kerouac accompagnava e si faceva accompagnare nell’esistenza da Dean, sempre più avanzava in me l’idea astratta per cui la contraddizione – manifestazione della presenza umana addietro al succedersi sterile dei fatti – è l’unica strada attraverso la quale potrà un giorno essere raggiunto il segreto, perché la verità della vita non è serbata in quel molle penzolante che permane quando si svuota la realtà dall’umano che la vive, ma è proprio la coincidenza del fatto e degli occhi che osservano, dalla cui unione scaturisce il significato; la chiave è nella penetrazione del senso, essere dell’umano, nel fatto, esistente. 

Se questo è il centro segreto, allora la vita è la corsa epilettica del pensiero all’interno del cranio. 

Se questa è la chiave, allora Dean è un precursore degli angeli umani, ebbri della stellare luce dei lampioni notturni sui lati delle strade, invasi dall’accozzaglia infinita di stimoli serbati nell’affastellarsi continuo di attimi; angeli, così stipati nelle profondità del proprio esplicitarsi, da non poter che ripetere soltanto “sì, sì” a tutte le cose; angeli che scrivono dell’unità dell’amore e dell’odio, della vita come preambolo della morte, spaventati dal morire dei possibili lungo il concretizzarsi degli esistenti, mentre ascoltano lo scrosciare del diluvio che imperversa al di fuori dei loro buchi, mentre affogano al di sotto di questo cielo sterminato.

Ricordo che dopo questa idea, non potei più vivere se non avvertendo il prurito causato dalla percezione dello scorrere su tutte le cose dello sguardo creatore, ricordo che seppi che io non esisto se non nel continuo, inafferrabile, presente, e che il tormento del passato non può che dileguarsi, constatando che per me non può esistere chi non mi è possibile sfiorare con la mano. 

Ricordo che imparai: “a essere matta, in sogno – cos’é questa, è vita?”.

La vicenda fra me e l’angelo finì e la finestra si serrò lungo le nostre ombre, ma le mie mani si chiusero attorno al libro. Perciò potrei riscrivere l’intera storia giocando col segreto scorto nella coincidenza del fatto e del senso; perciò potrei impiegare il tempo che mi è concesso per riscrivere un infinito numero di logiche diverse con le quali accostare nuovamente i fatti fra di loro, e ricrearli, ridare loro forma, nell’unica memoria che esiste. Tuttavia non lo farò. La vita è la strada, e bisogna immortalarla alla scoperta del sogno, non all’infinita rilettura del rimpianto.

“qual è la tua strada amico?… la strada del santo, la strada del pazzo, la strada dell’arcobaleno, la strada dell’imbecille, qualsiasi strada. E’ una strada in tutte le direzioni per tutti gli uomini in tutti i modi. Che direzione che uomo che modo?”

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