DI GIOSUE’ TEDESCHI
Nell’incontro al Circolo dei Lettori dall’omonimo titolo, ha parlato una sociologa di Genova, con una giornalista, riguardo al libro che ha scritto trattando dei lavori maschili e femminili. Ha aperto l’incontro facendo la differenza tra sessismo e sex-ismo. Non è uno scarto grande: con sex-ismo si intendono infatti quelle discriminazioni che si basano, specificamente, sulle caratteristiche fisiche dell’essere donna. Per quanto possa apparire una sottigliezza, è sempre preferibile avere una parola in più che una in meno a propria disposizione – come ci ha dimostrato in seguito.
Ha proseguito parlando del patriarcato come un sistema che disciplina sia il mondo femminile che quello maschile entro certi standard che, se un tempo avevano valore strutturale nella composizione della società, oggi dovrebbero essere revisionati. Sfortunatamente questo sistema è stato ideato e costruito perché fosse consolidato e atto a consolidare. Cosa vuol dire? Seppure l’analogia dell’autrice con Mussolini mi è sembrata esagerata, il punto è stato centrato:
Una cultura dominante deve mantenere il potere, dunque evitare atti di ribellione. Dico “sfortunatamente” perché evitare atti di ribellione vuol dire anche evitare il cambiamento. Tuttavia tutto ciò che non cambia finisce, inevitabilmente, col diventare stantio e datato.
In quest’ottica il sessismo può essere visto come uno strumento, tra gli altri, del patriarcato. Tanto di quello “benevolo”, ad esempio quando si chiama una donna “cara”, “piccolina”, “tesoro” o “stellina”, in un contesto di lavoro con l’intento di sminuirne l’operato, rimpicciolirla e farla apparire innocua; tanto di quello, per contrasto, “malevolo” che è più facilmente individuabile.

Il problema del patriarcato, specifica l’autrice, non sono gli uomini ma i modelli culturali. Gli uomini, infatti, non starebbero facendo niente di sbagliato agendo secondo i modelli culturali che conoscono; se non mancare di realizzare quanto quei modelli siano pronti, e siano in gran parte già stati superati. Che sia quello il vero obiettivo della scuola? Riuscire, intendo, a uccidere il libero pensiero così da avere uomini che di fatto non sono in grado di fare altro che agire secondo i modelli culturali che gli sono stati insegnati? Dunque incapaci, per costruzione (o per istruzione), di sviluppare un modello di pensiero personale?
Qual è il prezzo del sessismo che oggi non si è più disposti a pagare? Prende varie forme, difficili da elencare esaustivamente; generalmente possono essere riassunte nella forma “quello che non si nomina non esiste”. Per identificarli autonomamente ci si può allenare ad identificare tutte quelle situazioni in cui la sessualità viene utilizzata come arma, o in cui le descrizioni e percezioni della sessualità vengono prese come modello precettivo.
Fatta questa introduzione piccolina (nota per l’editore: l’uso di “piccolina” invece di “piccolissima” è voluto, così da ricalcare ciò che è stato detto prima riguardo al linguaggio teso a sminuire le donne in contesto di lavoro; l’idea è di “sminuire” tutta questa introduzione e, per estensione, il tempo speso, dagli uomini!, a leggerla), possiamo parlare del punto focale del libro: i mestieri! Questo libro è accompagnato da un progetto socio-fotografico con l’obiettivo di rendere pubblica la sociologia, facendola uscire dall’ambiente universitario e cercando di utilizzare un linguaggio che sia accessibile. Parafrasando l’autrice: che senso ha fare tutte queste ricerche se poi stiamo a parlarne tra di noi e basta?
Come si definisce dunque un lavoro maschile o uno femminile? La risposta che dà è che sia una sensazione di pancia, è una distinzione basata sulle percezioni. Molti di noi possono identificare in quale delle due categorie cada un dato lavoro senza pensarci su. Per trovare dei criteri per definire un lavoro maschile o femminile l’autrice è andata a guardare i giochi e le pubblicità, traendo esempi di parole chiave da elementi esplicitamente targhettizzati per un genere. Ciò che ha scoperto è che se è qualcosa di “maschile” il lessico utilizzato sarà quello militaresco, o militareggiante, e saranno in qualche modo coinvolte delle gerarchie da poter scalare. Se invece è femminile il lessico utilizzato sarà più dolce, docile, amorevole.
Per esempio: non suona strano dire “contadina”, “operaia”, perché non c’è in gioco del potere. Ma “avvocata”, “architetta”, “ingegnera” stonano.

Ci ha raccontato di un interessante esperimento dell’università di Trento: ha reso visibile l’invisibile sostituendo tutte le parole maschili con il femminile delle stesse. Il rettore ha detto di sentirsi molto a disagio leggendo comunicazioni scritte in quel modo, dove ci si riferisce “a tutte le studentesse” invece che “a tutti gli studenti”.
Inaccettabile! Inconcepibile! Eppure, tutto ciò che viene detto diventa realtà, ciò che viene taciuto non ha questo privilegio. C’è chi si arrabbia perché dice che non sono queste minuzie lessicali le cose importanti, ma allora se non sono importanti perché ti arrabbi tanto?
Perché cambiare il linguaggio implica agire sulla realtà e questo crea resistenze.
Spesso, trovo, si cade in queste risposte ironiche, sarcastiche, intelligenti, sardoniche. Sembra che vogliano solo vedere se riescono a far innervosire l’interlocutore, che nell’evidenziare la mancanza logica delle posizioni cerchino anche di stimolare una reazione emotiva negativa e incontrollata. A ben guardare la loro genesi giace altrove, e seppure capisco che sia difficile evitarle non penso giovino al dibattito. Per nessuna delle due parti.
In conclusione la società si costruisce anche attraverso narrazioni che giustificano la situazione corrente, o che la osteggiano. Se nella maggior parte dei dibattiti si cerca un vincitore, qualcuno che ha ragione e qualcuno che ha torto, penso che nel caso di questo specifico dibattito pensarla in questo modo sia decisamente controproducente. L’obiettivo dovrebbe invece consistere nel trovare il miglior modo di vivere insieme, in società. Senza iniziare una futile guerra (maschile!) “donne contro uomini”.

