Perché ancora Dante?

DI EDOARDO VALENTE

Un anno fa, qui su Mercuzio and Friends, in occasione del Dantedì è stata dedicata a Dante Alighieri (per mia volontà, lo ammetto, sono io il colpevole) un’intera settimana di articoli.

Va ricordato che era una situazione particolare, uno di quei cosiddetti “allineamenti astrali” irripetibili. 

Il 25 marzo, che è il giorno dell’inizio del viaggio della Divina Commedia, cadeva di lunedì. Il viaggio dantesco dura una settimana, e culmina con la domenica di Pasqua. E l’anno scorso la domenica che chiudeva quella settimana iniziata con il Dantedì era proprio quella di Pasqua.

Una coincidenza perfetta, che andava assolutamente sfruttata.

Quest’anno, però, accade un’altra cosa interessante: il Giubileo!

E Dante fa capitare il suo percorso di espiazione attraverso i tre regni ultraterreni proprio nell’anno del primo, ufficiale, Giubileo della storia, ovvero il 1300.

Ora, però, a 725 anni di distanza, questa cosa ha ancora una rilevanza così forte?

Insomma, il punto del discorso è: perché parliamo ancora di Dante?

Premetto: una risposta non esiste. O meglio, ognuno può avere la sua specifica risposta, io ne ho una che dipende dalla mia soggettività, ma non ne esiste una valida per tutti.

Allora chiedo a me stesso: ha senso che io continui a parlare di Dante?

Quest’anno mi stavo addirittura per dimenticare dell’arrivo del Dantedì. L’anno scorso grande festa, quest’anno nulla. Solo un senso del dovere nei confronti di quel giorno che è stato arbitrariamente designato come celebrativo del poeta che, nell’opinione generale, dovrebbe essere il più importante della letteratura italiana.

Forse proprio da qui è giusto partire: il senso del dovere nei confronti di una figura che viene definita in maniera così assoluta.

A me questa cosa non è mai piaciuta. Ricordo bene che, quando dell’opera di Dante non avevo che una infarinatura data dalla scuola media, non sopportavo l’idea che fosse considerato “il più importante poeta della letteratura italiana”.

Ma come”, mi dicevo, “dopo tutti questi secoli nessuno ha fatto di meglio?”.

Soprattutto se si pensa che Dante ha scritto quando l’italiano che parliamo noi oggi ancora non esisteva.

E da quattro anni a questa parte gli si è addirittura dedicata una giornata celebrativa, come se ne avesse bisogno.

A partire da Boccaccio, un numero incalcolabile di studiosi e appassionati ha scritto un numero altrettanto incalcolabile di libri, commenti, saggi, ecc.

Esiste addirittura una branca della filologia dedicata interamente all’opera dantesca. E se si pensa che un testo originale della Divina Commedia neppure esiste, il tutto diventa ancora più assurdo.

Eppure, noi italiani sappiamo di essere debitori al “Sommo Poeta”, perché ha difeso e diffuso la lingua volgare (De vulgari eloquentia), e ci ha lasciato un’opera monumentale e unica e irripetibile proprio in italiano volgare. E noi che parliamo italiano, tranne per qualche incursione dei latinismi e del provenzale, possiamo comprendere quasi per intero quell’immenso poema.

Va bene, ma quindi?

Cosa ce ne facciamo della summa della cultura medievale? Cosa ce ne facciamo di un trattato che difende una lingua che diciamo essere la nostra, ma che poco ha a che fare con quella che parliamo tutti i giorni? Cosa ce ne facciamo di un trattato di politica che si basa sulla società del Trecento? Cosa ce ne facciamo di poesie serie e scherzose, e di quelle che ha commentato in un prosimetro? Cosa ce ne facciamo delle sue opere incomplete?

Niente.

Noi possiamo attribuire all’opera di Durante degli Alighieri, detto Durante Alighieri, detto Dante Alighieri, detto Dante, un valore smisurato; possiamo studiarla, parlarne, scriverne, impararla a memoria, ma perché lo facciamo?

Per il motivo più semplice di tutti, che non ha nulla a che fare con la società dei comuni trecenteschi, con la politica, con la filologia, con la filosofia, e forse neanche con la poesia.

Noi parliamo di Dante perché amava. Amava come possiamo amare tutti, forse sì, ma è riuscito a fare del suo amore qualcosa di ineguagliabile.

Immaginiamo la possibilità di amare come dei semi che ci vengono forniti in maniera aprioristica, e una volta che ne abbiamo la quantità prestabilita possiamo decidere di farne ciò che vogliamo.

Chi ne ha pochi decide di tenerli per sé, oppure di darli tutti a qualcun altro; qualcuno ne ha tanti e riesce a tenerli sia per sé che per gli altri; qualcun altro ancora riesce a piantarli e a ottenere altri semi.

Dante, con i suoi semi, ha fatto nascere una foresta immensa. 

Ora, è facile, parlando di foreste, dire che Dante si è perso proprio in una di esse, in quella “selva” che sentiamo nominare fino allo sfinimento, dalla quale inizia il suo viaggio attraverso Inferno e Purgatorio, che culmina, però, in un altro luogo alberato. Si tratta del Giardino dell’Eden, in cui il Poeta può incontrare nuovamente la tanto amata Beatrice.

È per lei che esiste quell’immensa foresta che è l’opera dantesca. 

D’altronde, sappiamo che a Beatrice è rivolta quella che è probabilmente la più bella dedica d’amore di sempre:

“[…] io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”.

Di questo ci informa Dante alla fine della sua Vita Nova, e questo farà con la Commedia. Il più grande canto d’amore di sempre.

Noi ci possiamo perdere nella vastità di un poema poiché un giovane fiorentino, a fine Duecento, si è innamorato di una donna sconosciuta, che poi è morta.

A noi della sua opera può interessare poco, può interessare sempre di meno, ma non possiamo ignorarne il nucleo, il cuore pulsante, la linfa vitale.

E una volta che attraversiamo quel nucleo, lo comprendiamo, ci facciamo comprendere da esso; quando ci appartiene e gli apparteniamo, allora possiamo tentare ci comprendere tutto il resto.

Un autore che ha sicuramente compreso questo nucleo dantesco è Borges, che al termine di una raccolta di racconti, principalmente estrapolati da opere altrui, (si intitola Racconti brevi e straordinari, con Adolfo Bioy Casares), riporta una citazione tratta dal libro Estudios dantescos, che però non esiste. In realtà l’autore è uno pseudonimo degli stessi Borges e Casares. In questo frammento viene detto:

Nel capitolo XL della Vita nuova Dante racconta che mentre percorreva le strade di Firenze vide certi pellegrini e pensò con un certo stupore che nessuno di loro aveva udito parlare di Beatrice Portinari, che tanto lo affliggeva”.

(Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares)

Noi siamo i pellegrini, che passano per Firenze e ignorano il dolore di Dante; pellegrini che vivono un’intera vita rimanendo estranei al dolore di Dante.

Ma il Poeta ha desiderato a tutti i costi renderci partecipi dei suoi sentimenti, e ha eretto per Beatrice il monumento più rilucente di sempre. 

Ha consegnato ai suoi contemporanei, ai posteri, al mondo intero, un atto d’amore sconfinato.

Che però non è amore solo per Beatrice. È amore per i classici, per Virgilio, Ovidio, Stazio; amore per la lingua e le sue possibilità; amore per la politica; amore per la città che lo ha esiliato; amore per il sapere e le sue mille sfaccettature; amore per Dio; amore per l’essere umano.

Quel giovane studioso, aspirante poeta, che soffre per la morte di un’amata quasi immaginaria, si mette a studiare tutto ciò che può studiare, e usa il suo sapere per connotare il suo poema di tutte le manifestazioni dell’umanità.

E lo fa per amore.

Di questo non possiamo dimenticarci, perché senza questo elemento non avremmo nulla. E con “nulla” non intendo solo gli scritti di Dante Alighieri, ma intendo nulla nella nostra vita; che può (forse deve) sicuramente essere una vita da pellegrini, che vivono bene anche senza sapere chi è Dante, perché ha amato e perché ha sofferto; ma non può essere una vita che ignora il proprio amore.

E quando leggete “amore” potete leggere la parola che preferite, che sia passione, desiderio, obiettivo, lotta, determinazione, abbandono, felicità, quiete, salvezza.

Amore è quello che vogliamo. È quello che siamo. E possiamo esserlo anche senza Dante; però chissà, magari ci ha visto lungo, e può darci una mano.

Da un uomo che credeva così tanto nel suo amore da poter scrivere di aver raggiunto Dio, forse qualcosa c’è da imparare.

O forse era solo un folle. 

Ma avete mai visto una persona che ama essere priva di follia?

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