Dante e l’italiano: una storia d’amore che dura da secoli

DI ORIANA FERRAGINA

In qualsiasi lezione su Dante che abbia mai seguito a scuola, sia alle medie che poi alle superiori, la prima cosa che si diceva sul Sommo Poeta era che l’Alighieri fosse il padre della lingua italiana; persino nelle lezioni di letteratura inglese, quando in quarta superiore ho iniziato a studiare Chaucer, mi sono sentita dire che l’autore di “The Canterbury Tales” stava all’inglese come Dante stava all’italiano. Il poeta toscano, infatti, fu il primo a proporre una lingua comune per tutto il territorio italiano, prendendo come spunto il proprio dialetto; ed è per questo che molte parole di uso frequente derivano dagli scritti di Dante, come, per esempio, “gabbare”, “mesto” o persino “molesto”. Molte di queste parole, inoltre, si possono ritrovare per la prima volta proprio nella “Divina Commedia”, l’opera più famosa al mondo del poeta toscano.

Non sono solo le parole ad essere entrate nella vita quotidiana, ma anche i versi stessi delle sue opere: ed è proprio questo fatto che vorrei sviscerare nell’articolo, ovvero come i versi di Dante vengano usati nel linguaggio di tutti i giorni per enfatizzare certe situazioni o come certi personaggi riescano ad evocare determinate emozioni o come, ancora, altri characters, che di base hanno origine diversa dall’Alighieri, siano adesso inscindibilmente connessi alla sua opera magna.

E, prendendo spunto dall’ultima frase, cominciamo proprio da uno di questi personaggi: Ulisse, il protagonista dell’Odissea e uno dei personaggi principali dell’opera precedente di Omero, ovvero l’Iliade. Come sappiamo tutti, Ulisse è il re d’Itaca: uomo astuto e preferito di Atena, dea greca della saggezza e della guerra strategica. Nella Divina Commedia, Ulisse appare nel XXVI canto, posto nell’ottava bolgia tra i consiglieri fraudolenti, motivo principale proprio lo stratagemma che fece vincere ai Greci la guerra di Troia, ovvero il famoso cavallo cavo ideato dall’uomo dai mille trucchi Odisseo (nome greco del re di Itaca); e, ormai, sono celebri le parole che Dante fece pronunciare a questo famoso personaggio dell’epica greca, tanto che, come già detto, non si riesce a non pensare a questa terzina quando si nomina Ulisse:

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza.

Queste le famose parole che il re rivolse ai suoi compagni, per spronarli a riprendere il mare e inseguire nuove avventure; da sottolineare, inoltre, che è noto anche come Dante definì quel viaggio, ovvero un “folle volo”.

Più celebre dei versi di Ulisse, però, è proprio la terzina iniziale che dà il via al viaggio di Dante nei tre regni ultraterreni, citata sia per indicare la Divina Commedia come opera, sia per enfatizzare quanto una situazione ci abbia completamente disorientati e destabilizzati (spesso con fare ironico si cita Dante in questa occasione). La terzina, la prima del primo canto, è le seguente:

Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai in una selva oscura

ché la diritta via era smarrita.

Sempre dal primo canto, nella lingua italiana, in certi frangenti, l’esclamazione “Miserere di me”, ovvero l’espressione che Dante usa per attirare l’attenzione di Virgilio e farsi salvare dalle tre fiere che lo circondano, nella selva citata sopra (io, personalmente, sono di parte e continuo ad usare l’espressione di zio Paperone “Me tapino, me misero”, ma anche a me è sfuggito in certi momenti un “Miserere di me”).

E, citando Virgilio, come non dimenticare la famosa frase che il poeta latino ripete tre volte, a Caronte, Minosse e Pluto, che, sinteticamente, vuol dire di farsi gli affari propri e ignorare l’anima umana e che per molti è stata un incubo, visto che hanno dovuto impararla a memoria?

Vuolsi così colà dove si puote

ciò che si vuole, e più non dimandare.

Insomma, l’Inferno è citato molte volte nei discorsi: perché è la cantica più studiata nelle scuole, perché è quella con maggior impatto sulla mente (la celebre scritta sulla porta dell’Inferno la si trova ovunque, girando per internet, ed è stata citata da innumerevoli film, fumetti e altri media; anche perché, diciamocelo, fa sempre un certo effetto sentire i versi “Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente”); o, semplicemente, è perché è quella per cui, avendoci appassionato di più quando l’abbiamo studiata a scuola, facciamo fatica, adesso, a scordarci i passi più potenti e struggenti, come la triplice anafora che troviamo nel V canto, quando Francesca parla con Dante e gli racconta della sua tragica storia d’amore con Paolo:

Amor ch’a col gentil ratto s’apprende…

Amor ch’a nulla amato amar perdona…

Amor condusse noi ad una morte…

Di contrasto, una delle poche terzine che è rimasta celebre nel Purgatorio è quella nel VI canto, ovvero quello politico, detta da Sordello da Goito, che viene spesso usata quando uno scandalo di corruzione arriva sui giornali o ci si lamenta di dove sta andando l’Italia:

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave senza nocchiere in gran tempesta,

non donna di province, ma bordello!

E se per il Purgatorio ci ricordiamo solo questa terzina e l’ultimo verso finale che, come per l’Inferno, si riferisce alle stelle (per l’Inferno è “E quindi uscimmo a riveder le stelle” mentre per il Purgatorio è “puro e disposto a salire le stelle”), per il Paradiso l’unico verso che mi ricordo, e con me credo molta altra gente, è proprio quello che chiude tutta l’opera (per la terza volta sono presenti le stelle):

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Ma non solo la Commedia è citata tra gli scritti di Dante: anche uno tra i suoi più celebri sonetti è ricordato nel parlare comune. Si tratta della celeberrima poesia “Tanto gentile e tanto onesta pare”, che viene accostata sempre al nome di Beatrice; e qui ritorniamo al punto trattato prima, ossia ormai alcuni personaggi sono indissolubilmente legati alle parole del Sommo Poeta toscano.

In conclusione, ho fatto tutto questo excursus solo per farvi partecipi del caos esistenziale che avviene nella mia mente alle tre del mattino quando non riesco a dormire e il mio cervello decide che non ho altro di meglio da fare che iniziare a riflettere su come la scrittura di Dante abbia influenzato il nostro parlare comune o quale sia il modo migliore per far soffrire quel tale personaggio di quella mia storia che ho iniziato tre mesi fa e che ho lasciato in sospeso; dipende dalla nottata, davvero.

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