DI MARCO FERRERI
A mio modesto parere la risposta è sì, a mani basse.
Mi sono recentemente ritrovato a discutere di narrativa veicolata tramite media diversi dalla semplice scrittura e, senza pensarci troppo o essere ubriaco, a discapito del mio soprannome, non ho avuto alcun dubbio a pronunciare l’ardita sentenza. Non mi pento minimamente di averlo fatto, tantomeno di ribadirlo ora.
Che gli intellettuali autoproclamati e le sedicenti élites culturali storcano pure il naso o si facciano una sana risata di scherno, mentre si godono i loro “casi letterari”, che di anno in anno presentano sempre meno “casi” e, nella maggior parte dei casi, hanno ben poco valore letterario.
Viviamo in un’epoca in cui metà dei romanzi nominati per il Premio Strega non raggiungono mille copie vendute prima della suddetta nomination, in cui le produzioni cinematografiche smollano budget decenti solo per film confezionati a tavolino in modo da puntare agli Oscar, in cui le serie tv o muoiono dopo un pilot oppure vengono trascinate per dieci stagioni quando alla fine della terza non hanno più nulla da dire.
Un’epoca in cui qualunque narratore, a prescindere dalla forma d’arte che utilizza per veicolare i suoi messaggi, perde notti di sonno non tanto per definire forma e sostanza di tali messaggi, o per caricarli di pathos e di efficacia comunicativa in modo tale da stimolare la riflessione del fruitore finale, bensì per modulare la propria espressione in base alle linee guida delle community e alle esigenze del pubblico target.

Il nostro ego si sente così profondamente minacciato, talvolta perfino terrorizzato, dall’avvento delle Intelligenze Artificiali in ambito artistico, ma in realtà basterebbe guardarsi un attimo intorno e si scoprirebbe che le IA replicanti, da un paio di decenni, esistono già, e siamo proprio noi autori, castrati della creatività a vantaggio delle strutture narrative consolidate e dell’incasellamento forzato in un genere. Salvo rare eccezioni, la maggioranza delle opere narrative contemporanee sono, al netto di qualche dettaglio ambientale o linguistico, fortemente intercambiabili tra loro. È sempre più difficile che emergano autori dalla cifra espressiva chiara e definita, che pur di affermare il proprio stile accettino di creare opere con alti e bassi, mostrando in entrambi i frangenti originalità, tendenza a reinventarsi e capacità di aprirsi a un ampio ventaglio di interpretazioni e sfaccettature di significato.
È l’epoca della vittoria del contesto sulla narrativa, dell’aspettativa del pubblico sull’esigenza comunicativa, del controllo tecnologico e mediatico sull’ideale e sullo spirito dell’individuo.
Queste considerazioni possono sembrare, e in parte lo sono, un semplice sfogo da parte di uno scrittore annoiato e deluso dalla scena contemporanea mentre veleggia nervosamente verso lo status di boomer. In realtà, riflettono fedelmente alcune tra le principali tematiche sociali, psicologiche e metanarrative presentate da Hideo Kojima in tempi non sospetti, a cavallo del Millennio, quando partorì la sua opera principale, nonché alcune dinamiche lavorative che il suddetto autore ha dovuto subire, di certo non passivamente, nel corso della sua prolifica carriera.
Tuttavia, chi non è avvezzo all’arte narrativa più giovane e per questo più bistrattata, il videogame, si chiederà: “Ma chi cazzo è Hideo Kojima?”
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