DI ALBERTO GROMETTO
Sette anni, otto mesi e dieci giorni.
I ritorni! Tutti amiamo i ritorni, giusto? Chi non li ama? Qualcosa – o meglio Qualcuno – che se n’è andato e che non c’è più stato ma che poi all’improvviso torna e… WOW!… “è di nuovo”.
Ognuno di Noi ha avuto Qualcosa di bello e felice nella sua Vita e l’intero nostro vivere è un voler tornare ad avere quel Qualcosa. Che spesso coincide con Qualcuno. Magari penserai che non vale la pena sperarci, magari invece proverai e riproverai ogni giorno e tutti i giorni a far tornare ciò che hai perso. Ma tutti quanti siamo appesi a questo desiderio così dolorosamente umano, questo desiderio di ritorno.
Sette anni, otto mesi e dieci giorni.
Un tempo che può sembrare infinito, lunghissimo, smisurato. Perché – si sa – la Vita dicono tutti che è breve. Ma forse sarebbe meglio dire che scorre veloce. Sbatti le palpebre e di colpo son trascorsi vent’anni, così!, senza che ci potessi fare niente. Ma la Vita è in realtà tutt’altro che breve. È anzi lunga, dannatamente lunga.
Il ricordo allunga il Tempo. Gli anni scorrono, trascorrono, passano. Ma i ricordi no, quelli non se ne vanno. E la nostra esistenza è questo, una condanna “a vita” che ti vincola all’obbligo di convivere col ricordo di ciò che si è fatto, di quello che si ha avuto, di chi si è stati. Le nostre memorie – in un senso o nell’altro – non definiscono quel che siamo, ma quel che viviamo. E soffriamo.
Sette anni, otto mesi e dieci giorni.
Non sono più capace, sapete?, di concepire il Tempo. Qualsiasi concezione temporale potessi avere in testa, vuoi la Vita o vuoi il Dolore o vuoi entrambi – ché forse non c’è così grande differenza tra l’una e l’altro – ad oggi non ce l’ho più. Non sono più in grado di capire se da un determinato evento sia passato tanto o poco tempo.
Come si può “ritornare”, se non si è mai andati via per davvero? Se aspettiamo tutti quanti “Il Grande Ritorno”, ma per tutto il tempo di quell’attesa hai ricordato, hai rimembrato, ti sei aggrappato disperato a quelle memorie che non se ne sono mai andate, allora non hai mai davvero lasciato ciò di cui attendi il ritorno. E ciò di cui attendi il ritorno non se n’è mai veramente andato.
Penso a questi sette anni, otto mesi e dieci giorni e da una parte m’accorgo di quanto tutto sia cambiato. Diplomato, laureato, fondatore di MERCUZIO AND FRIENDS. Ma d’altro canto sono ancora quel ragazzino con nemmeno diciott’anni sulle spalle che andava al cinema quel SABATO 24 FEBBRAIO 2018 col cuore gonfio di dolore e una tristezza assurda pesante nel petto per poter dare il suo ultimo saluto ad uno dei suoi più Grandi Eroi in assoluto. Nella mia Vita ho avuto l’onore sconfinato e il privilegio immenso di poter contare su Eroi dei più straordinari. I miei genitori prima di chiunque altro, naturalmente. E poi qualche persona incontrata lungo il cammino. E tra queste ovviamente DANIEL DAY-LEWIS.

Era «IL FILO NASCOSTO» il film in cui Ti vidi quel Sabato, in quella che sarebbe stata la Tua ultima performance. Per tutta la Vita. Ogni cosa in quella pellicola gridava al capolavoro. La storia in sé e per sé, talmente forte e feroce e umana da rivolgersi a chiunque. Il nome di colui che l’aveva scritto e diretto e realizzato, anch’egli mio Idolo personale: PAUL THOMAS ANDERSON. E poi Tu, Daniel. Non il più grande attore che esista, bensì la Recitazione stessa in tutta la sua divina potenza fattasi carne e corpo e sangue e incarnatasi in Te. E quel film era effettivamente un capolavoro assoluto, tra i più fenomenali e assurdi che abbia mai visionato. Ma non potevo apprezzarlo pienamente quel giorno, proprio no! Perché non potevo convivere con l’idea che non T’avrei potuto applaudire, mai più.
Sette anni, otto mesi e dieci giorni dopo – non appena esce in sala in Italia – e precisamente GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE 2025, mi caracollo al cinema pieno d’ansia e tremore – non così dissimile da quel ragazzino non ancora diciottenne che era terrorizzato all’idea che l’ultimo film del suo Maestro potesse rivelarsi una delusione cocente – per poterTi avere di nuovo. Perché Tu sei un patrimonio mondiale, appartieni a chiunque ha potuto assaporare la Tua Grandezza, e anche a me. Ai tempi lo avevi annunciato, che non avresti più recitato. Che abbandonavi le scene. Ma nemmeno Tu potevi farci niente, nemmeno Tu potevi resistere, neanche Tu potevi non voler “ritornare”. E infatti sei tornato. E sei tornato in un film che parla di ritorni.

«ANEMONE» ti racconta di un ritorno, che forse non avverrà mai. Ma te lo fa volere, desiderare e sperare per tutto il film. Ti racconta di un uomo che se n’è andato, senza però andarsene veramente. Perché quell’uomo c’è sempre stato, anche se non c’era. Perché ha preso, mollato tutto e tutti ed è partito per starsene da solo in mezzo ai boschi, alla stregua di un eremita solitario, nel più completo isolamento. E questo per vent’anni. Che sono più del doppio dei sette anni, otto mesi e dieci giorni di cui parlavamo poc’anzi. Ma quale che sia il tempo, c’è sempre il Ricordo che non ti fa andare via. E nel caso di quell’uomo, stiamo parlando sia del Ricordo che ha lasciato in chi se n’è andato, sia di quello che si porta dietro e che è il fardello oscuro e orrido che gli attanaglia il cuore.
Per vent’anni quest’uomo ha scelto di “non esserci”. Di stare lontano. Di andarsene, abbandonando tutti. Ma tutti a casa si ricordano di lui. E lui si ricorda di tutti quelli che sono a casa. Perché puoi anche scegliere di non rivolgere la parola ad anima viva, per oltre vent’anni. Puoi sbraitare a perdifiato l’odio che nutri nei riguardi di quel bastardo di tuo padre che ti ha fottuto la vita già in partenza. Puoi avercela con la Chiesa e con quei cosiddetti preti che in gioventù t’hanno devastato, deridere chi vive nel nome della Fede, sputare in faccia a Dio chiedendoti se Lui porta sempre le mutande pulite a differenza di te che le hai sporche di merda. Se poi però leggi le lettere che ti vengono mandate da chi attende il tuo ritorno anche se non lo vuoi ammettere, coltivi gli stessi anemoni che coltivava il papà e non vorresti altro che ricevere l’assoluzione e il perdono benedetto da chi ami – similmente a quelli che si ricevono da un reverendo – allora forse dopotutto non te ne sei mai davvero andato via.

Quell’uomo che verrà chiamato a decidere se far ritorno o meno è impersonato dal più grande attore esistente e mai esistito e che mai esisterà. Nessuno al Mondo e in tutta la Storia avrebbe mai e poi mai potuto rappresentare e ritrarre e inscenare e rendere viva e tangibile e palpabile e soprattutto vera quella persona attorno alla quale la pellicola è costruita. Abbiamo a che fare da una parte con la furente rabbia animalesca d’una belva ferita e sola e non più abituata a stare tra gli Esseri Umani e che anzi è fuggita da quell’Umanità che ritiene proprio così disprezzabile e schifosa da essere inumana. Con qualcuno che ha smesso di credere in tutto, in qualsiasi ideale con cui era stato cresciuto da buon irlandese, valori quali la Famiglia, la Patria e la Fede. Dall’altra parte c’è però la malinconica tristezza dolorosa e struggente e agghiacciante d’un povero diavolo sofferente nascostosi in un eremo per poter nei fatti morire in solitudine e che dopo tanti dolori, patimenti e sofferenze non vuole più sapere di cosa sia vivere insieme a qualcuno.
Forgiare un’interpretazione che implicasse tutto questo era impossibile. Certo, a meno che non sei Daniel Day-Lewis. E solo Lui – mastodontico e ineguagliabile e ineguagliato – poteva farlo con la potenza commovente e sensibilità delicata e micidiale furia prorompente e schiacciante con cui l’ha fatto. Perché sì, son trascorsi sette anni e otto mesi e dieci giorni da quando lo vidi. Ma è come se nulla fosse mai cambiato, perché questa è proprio come qualsiasi altra sua interpretazione: leggendaria, fuori dal comune, meritevole di essere premiata con l’Oscar ora, subito, immediatamente. Perché l’inenarrabile marea soverchiante e tempestosa – proprio come la minacciosa aria di burrasca temporalesca che la pellicola presenta fin dai primi secondi – di traumi inenarrabili che si muove tumultuosa dentro il personaggio di Daniel è, per l’appunto, inenarrabile. Ma Day-Lewis invece può narrarti qualsiasi cosa attraverso la sua performance, come nessun altro può fare. E lo fa.

Anche Daniel, come il protagonista che interpreta, ha scelto di andarsene. Se nel caso del suo personaggio le motivazioni ci appaiono chiare e nitide a visione ultimata – ferite e traumi e dolori e pure la sanguinosa guerra irlandese che lo vide combattere contro l’IRA a costo però di perdere la sua Umanità – nel caso di DDL la cosa ancora oggi non l’abbiamo capita. Diceva che una tristezza profonda lo aveva assalito, durante le riprese del suo film precedente. Stiamo parlando del resto d’un attore che ad ogni interpretazione quasi rinuncia a sé stesso e a chi è, così da diventare completamente chi interpreta. E a lungo andare, la fatica può essere opprimente. Così è faticoso vivere, come per il protagonista del film. Ma poi succede qualcosa, o meglio Qualcuno. E nel caso di entrambi questo Qualcuno è loro figlio. E allora – magari dico magari – ritornano?
Forse solo un unico regista in tutto il globo poteva convincere Daniel Day-Lewis a ritornare, l’unico a cui lui non poteva dire di no: suo figlio RONAN DAY-LEWIS. Insieme – padre e figlio – scrivono una pellicola bellissima, potentissima, micidiale, che spiazza, schiaccia, devasta. Raramente succede che un’opera prima sia un capolavoro, e questo primissimo film del regista Ronan non fa eccezione, ma racchiude la promessa d’una Grandezza che va al di là del nome del padre. La sua regia, la messinscena che imbastisce e il modo di ritrarre e rappresentare questa storia dimostrano che siamo in presenza di un talento maiuscolo. Per come è scritto e diretto, trattasi di un film che non si limita a “mostrarsi” bensì ti rapisce e scuote dentro. Alcuni momenti ti riempiono così tanto che dedicarci delle parole sarebbe inutile. E poi – già lo sapete! – c’è Daniel. E questo dice già tutto.


Avevo talmente tante cose da dire che non son mica sicuro di averle dette tutte! E del resto questo gioiellino qua ti parla di redenzione, fede, disprezzo, amore, rabbia, odio, famiglia, legami, guerra, traumi, abusi, violenza… ti parla di tutto e te ne parla raccontandoti d’un uomo spezzato. E questo ti spezza. Però trattasi pure di una pellicola che ti mostra anche che magari i ritorni sono davvero possibili. Che nemmeno tutte le sofferenze e i dolori e i patimenti del Mondo possono cancellare la possibilità di continuare a sperarci, in un ritorno.
Perché Tu puoi anche dire che un ritorno non lo vuoi, che non ci credi, ché dopo tutte le delusioni che ti sei preso hai smesso di credere in qualcosa. Anche io, Daniel, non speravo più saresti ritornato. Quando – sette anni e otto mesi e dieci giorni fa – ti vidi al cinema, i miei occhi erano pronti ad accogliere quello spettacolo di Vera Bellezza e quella Bellissima Verità che Tu hai sempre saputo incarnare. Per l’ultima volta. Ma ora so che non era vero. So che io non ho fatto altro che continuare a pensarci, sperarci, crederci. Perché Tu puoi abbandonare le scene come scappartene in un bosco. Se ti si continua ad amare, allora non ti sarà mai possibile andare via veramente. T’amo, Daniel Day-Lewis. E in questi sette anni e otto mesi e dieci giorni non ho fatto altro che vedere tuoi film, continuare ad applaudirti e a saperlo dentro di me. Sapere che saresti tornato. E oggi sei tornato. Perché son convinto che anche Tu – come il protagonista che hai interpretato – ti sentivi spezzato dentro, nel momento in cui te ne sei andato. Ed è per questo che non hai potuto fare a meno di esserci, di nuovo, su quello schermo, in quella sala.
Le persone che ci attraversano, anche se se ne vanno, non se vanno mai più, in realtà. E ritorneranno ogni giorno. Perché loro non possono scegliere di andarsene. Loro ci saranno sempre, e per sempre.
E voi? Voi ci credete nei ritorni?


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