«Tutti i figli di Dio danzano» Di Haruki Murakami

DI GIOSUE’ TEDESCHI

Un libro particolare. Confuso. Per capirlo non basta leggerlo immaginando ogni racconto nella cornice del terremoto di Kobe. Anzi, non sembrano neanche racconti appartenenti allo stesso mondo. Sono tutti ambientati in mondi diversi e in ognuno di questi mondi c’è un posto che si chiama Kobe dove è avvenuto un forte terremoto.  

Eppure coscientemente sappiamo che sono la stessa storia, parti diverse dello stesso mondo. Perché allora non sembra leggendolo? La mia idea è che Murakami riesca qui a raccontarci del mondo di ciascuno, di ogni individuo che ha vissuto quell’evento. E per forza di cose il mondo interiore di ognuno non ha niente a che fare con quello degli altri.  

E’ molto difficile, in poche pagine, entrare nel mondo interiore di qualcuno e uscirne per rituffarsi in quello di un altro nel prossimo racconto. Di conseguenza è molto difficile leggere questo libro tutto d’un fiato per quanto sia piccolo.  

Ritengo anche che ci sia altro oltre la rielaborazione dell’evento del terremoto di Kobe. Cosa può essere questo qualcosa d’altro?  

Potrebbe essere un’idea, una silhouette, di come noi umani affrontiamo il trauma.  

Credo che sia un tema emergente dalla raccolta di racconti più che non qualcosa che Murakami avesse in testa di far passare da quando ha iniziato a scrivere.  

Alcuni racconti, come «Ranocchio salva Tokyo», sono particolarmente tristi. Io, in quanto persona emotiva, ho molto apprezzato a livello personale, che finisse la raccolta con un racconto a lieto fine.  

L’immaginario, le analogie che utilizza per spiegare i sentimenti del terremoto, per fare capire come ci si sente ad essere vicini ad un avvenimento del genere, sono sorprendentemente adatti. Nel senso che immaginare qualcosa di più adeguato a descrivere quelle sensazioni e quelle immagini e quei ricordi a chi non c’era è molto difficile. Almeno per me.  

Racconto preferito personale è quello di apertura, quello dell’uomo che accende i fuochi sulla spiaggia. Finisce male ma il viaggio è di una tranquillità così umana che quasi accetto la sconfitta in quel caso.

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