Indiana Jones e il quadrante del destino

DI GIACOMO CAMISASCA

Parto subito col dirvi che personalmente ho apprezzato e continuo ad apprezzare ancora oggi il quarto film di Indiana Jones, ovvero “Il Regno del Teschio di Cristallo”, pellicola del 2008, diretta da Steven Spielberg.

Anzi, una precisazione… non è che lo apprezzo, mi piace davvero tanto, soprattutto ora che ho potuto vedere al cinema il quinto capitolo della saga.

Indiana Jones and The Dial of Destiny, questo il titolo originale della pellicola, è un film del 2023 presentato in anteprima fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes, diretto non più dal buon vecchio Steven Spielberg ma da James Mangold, un regista che sa il fatto suo e che ha diretto film come “Logan”, “Ford Vs Ferrari” e quel gioiellino di “Walk The Line” biopic su Johnny Cash.

Quest’ultima fatica doveva essere, secondo i fan più accaniti, la pellicola che avrebbe risollevato il franchise, il miracolo che avrebbe dato ad Indiana la sua degna conclusione, cercando di far dimenticare a tutti, come sotto una sorta di ipnosi, il quarto film.

Ma perché farlo? Cosa c’era che non andava in quel film maledetto? Anche se sono un estimatore di quella pellicola, bisogna ammettere che in effetti molte cose non quadravano. Era una storia imperfetta, pregna di errori grossolani e con una sceneggiatura non all’altezza delle prime tre, ma nonostante ciò funzionava, perché cercava di mettere il suo protagonista a confronto con un artefatto e un mistero diverso dai precedenti, con antagonisti provenienti da un’area geografica differente dalla Germania nazista e secondo me, dava al suo eroe la sua conclusione più bella, con quel passaggio di testimone che all’ultimo secondo veniva ritirato, perché diciamocelo chi se non Harrison Ford può interpretare Indiana Jones?

Si sa che la gestazione di questo ultimo capitolo è stata lunga e travagliata, si parlava già di un possibile Indiana Jones 5 subito dopo il 2008.

Lo sviluppo creativo era sempre lo stesso: George Lucas partiva con una nuova idea, si isolava per completarla e poi riemergeva dal suo Ranch per farla visionare a Spielberg e Ford. Per citare lo stesso Harrison: “Arriviamo a un accordo di base e poi George se ne va per molto tempo e ci lavora. Poi Steven e io lo otteniamo in qualche forma, una forma embrionale. Poi, se ci piace, iniziamo a lavorarci con George e ad un certo punto è pronto e lo facciamo”.

(Il magico trio: George Lucas, Harrison Ford e Steven Spielberg)

Ma nell’ottobre del 2012 Topolino e Company prendono tutto e anche il vecchio professore di archeologia passa di mano in mano ritrovandosi tra le grinfie di Kathleen Kennedy (colei che ci ha regalato l’ultima trilogia di Star Wars… una cosa tutt’altro che positiva).

Quindi ci ritroviamo catapultati nel 2016. La sceneggiatura arriva nelle mani di David Koepp (Spider Man”, Jurassic Park). Qualcosa non va: le due sceneggiature che scrive non piacciono ai produttori, quindi si cambia e nel 2018 le redini passano a Jonathan Kasdan (Solo: A Star Wars Story”).

Ma la sua sceneggiatura risulta eccessivamente rivoluzionaria, troppi cambiamenti e altrettanti stravolgimenti, pericolosissimi se si vogliono soddisfare i gusti dei fan, soprattutto dopo le reazioni al quarto.

E così via Kasdan e dentro Dan Fogelman (“Cars”, “Bolt).

Pensate che sia finita, vero? E invece no, perché dopo il ritorno di Koepp come sceneggiatore, alla fine di tutto subentra James Mangold che inizia a lavorare alla sceneggiatura insieme a Jez e John-Henry Butterworth, che avevano già lavorato con lui in Ford vs Ferrari.

E dopo il battesimo del fuoco di Lucas e Spielberg, il film inizia a prendere vita.

Il Quadrante del Destino è il risultato di questa gestazione: è un film stanco.

Indiana Jones non vuole più essere Indiana Jones, Henry vuole andare in pensione, vuole che i suoi vicini sbarbatelli abbassino “Magical Mistery Tour” dei Beatles, vuole che i suoi studenti siano più attenti durante le lezioni e non si lascino distrarre dalla parata del 13 agosto 1969 in cui si festeggia il ritorno degli astronauti dell’Apollo 11.

Indiana Jones ormai è così, un orso, un burbero che ne ha passate di cotte e di crude, che vuole rimanere a casa e invece no, bisogna trascinarlo nuovamente in un’avventura strampalata e al limite dell’immaginabile.

Se molti si lamentavano della presenza degli alieni nel “Regno del Teschio di Cristallo”, dicendo che si trattava di situazioni inverosimili e che si discostavano drasticamente dai classici McGuffin proposti nei primi tre, allora davanti al nuovo artefatto che viene proposto in questo ultimo film, molti storceranno il naso.

La pellicola inizia con un prologo molto lungo che vede il nostro eroe nella Germania del 1944. Indy viene catturato dai soliti nazisti mentre cerca di recuperare la Lancia di Longino (secondo la leggenda, la Lancia del Destino o Lancia di Longino è la lancia con cui Gesù è stato trafitto al costato dopo essere stato crocifisso.)

Qui vediamo un Harrison Ford ringiovanito con la tecnica del Deepfake, che sinceramente lascia molto a desiderare.

Dopo essersi liberato, Indiana parte alla carica di un treno per recuperare la lancia.

All’interno dei vagoni facciamo la conoscenza del villain bidimensionale di turno, Jürgen Voller, astrofisico tedesco interpretato da uno sprecato Mads Mikkelsen e anche dell’aiutante di turno del buon vecchio Jonsy, Basil Shaw, collega archeologo insegnante ad Oxford.

Si scopre che la Lancia di Longino in realtà è un falso, ma Voller ha tra le mani la metà di un oggetto molto più potente che, a detta sua, può trasformare chiunque trovi l’altro pezzo in una sorta di Dio.

Ed ecco appunto che ci viene presentato il nuovo McGuffin, il meccanismo di Antykytera o Quadrante del Destino, inventato dal matematico siceliota Archimede durante il III secolo a.C. che secondo la leggenda è in grado di localizzare fessure temporali, quindi si parla di viaggi nel tempo… Grande Giove!

Indy e Basil riescono a prendere il Quadrante e dopo una bella e sana scazzottata sul tetto del treno, si liberano dalle grinfie di Voller, che nel mentre prende una sbarra d’acciaio in piena faccia ad una velocità spropositata (spoiler: non muore).

E così il flashback finisce e ci ritroviamo nel 1969 e il motivo per cui Indiana torna ad essere Indiana è la comparsa improvvisa della sua figlioccia, Helena Shaw, figlia di Basil, interpretata da una straordinaria Phoebe Waller-Bridge (“Fleabag”) che non fa che prendere per il culo il vecchio Henry Jr. rubandogli da sotto al naso il Quadrante e facendosi inseguire da un manipolo di agenti della C.I.A e scagnozzi di Voller.

Il film parte e io con la trama mi fermo qui, vi dico però che starete seduti sulla poltrona per 154 minuti, molti dei quali, pressoché inutili, potevano benissimo essere tagliati qua e là.

Si sente soprattutto la pesantezza nei vari inseguimenti per le strade di Tangeri, negli inseguimenti per le strade e la metropolitana di New York e infine negli inseguimenti per Siracusa, è pieno di inseguimenti.

Ma cos’è che rende questo film leggermente godibile? La risposta è Helena Shaw.

(Il magico trio: George Lucas, Harrison Ford e Steven Spielberg)

Phoebe Waller-Bridge ruba la scena, è una forza della natura e il suo personaggio, nonostante sia caratterizzato in maniera non molto approfondita, funziona.

Helena Shaw è una che contrabbanda reperti archeologici e che ha rapporti con la mafia marocchina. È una tipa tosta, strafottente, è esattamente ciò che dovrebbe essere Indiana Jones.

Quindi alla fine ci viene proposto l’ennesimo, nuovo passaggio di testimone, nel 2008 era Shia LaBeouf questa volta è Phoebe Waller-Bridge, le situazioni si ripetono.

Ricapitolando, qui ci sono tutti gli ingredienti per un film su Indiana Jones: un cattivo bidimensionale e nazista, i suoi scagnozzi macchiette, usati da Indy come sacchi da boxe e c’è il ragazzino che aiuta l’eroe, quello che nel Tempio Maledetto era Short Round, interpretato dal premio Oscar Ke Huy Quan e che qui ha le sembianze del giovane attore Ethann Isidore, e ve lo dico in anticipo, il suo personaggio, Teddy, è davvero insopportabile.

C’è l’artefatto magico da recuperare prima dei cattivi che va portato preferibilmente in un museo e soprattutto ci sono cappello e frusta contornati da una magia che però si perde verso il finale.

La parte migliore, quella più succosa, arriva alla fine e dura davvero poco, l’effetto WOW viene stroncato velocemente, quando il film sfocia sul più bello… iniziano i titoli di coda, ed è un peccato, perché secondo me si poteva fare molto di più.

Per concludere, questo quinto capitolo è un grosso “Ni”, non mi sento di bocciarlo in tutto e per tutto perché alla fine se l’avventura avesse un nome sarebbe Indiana Jones, e poi ci sono le musiche dell’immortale John Williams, c’è quel concetto di prendere cappello e frusta e partire verso nuove avventure, alla ricerca di qualche oggetto antico pregno di strani poteri.

C’è l’odore del deserto, ci sono caverne e anfratti da esplorare, non mancano gli animali schifosi che ti strisciano addosso, e poi gli amici di Indy, tutti stravaganti e che il più delle volte fanno il doppio gioco del doppio gioco e poi i nemici che vanno avanti per frasi fatte e che vogliono, tutte le sante volte, soggiogare il mondo.

Alla fine, bene o male lo si salva, perché si è affezionati al personaggio, si è affezionati ad Harrison Ford e a quella voglia di uscire di casa e buttarsi nel mondo per vedere cosa c’è fuori.

“Non sono gli anni, amore, sono i chilometri.”

Se vuoi saperne di più sul professor Jones, sull’impatto che ha avuto su intere generazioni e sul suo recondito significato, leggiti questo articolo!!!

Se vuoi vedere il buon vecchio Indy scontrarsi contro l’agente segreto Tom Cruise, allora questo è il pezzo che fa per te!!!

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