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DI GIOSUE’ TEDESCHI

Paper Street” è nato dall’idea di un corso di scrittura gratuito per i partecipanti. 

È nato da: “Chi ha pensato che via Negarville fosse un posto per le persone?“. È una domanda retorica. Nessuno ha pensato a come sarebbe la vita delle persone in quei posti. 

L’organizzatore voleva un aiuto per trovare spunti su nuove soluzioni amministrative per riqualificare le zone della città che non sono adatte dal punto di vista delle soluzioni abitative. Aveva bisogno di un feedback ragionato, scritto, lungo. Era interessato ad avere delle reazioni nuove, uniche, delle idee non omologate. Da questi presupposti è nata l’idea del progetto “Scrivere a Paper Street“, ospitata al Salone del Libro di Torino

Dopo l’introduzione parla Anna del progetto Kallipolis, anche lei spinta dal desiderio di migliorare gli spazi per la cittadinanza. Sanare, se possibile, i pregiudizi sui territori che sono in realtà dati da episodi distanti nel tempo. Per fare questo serve una nuova narrazione degli spazi e nuovi narratori. Viene quindi indetto un bando per persone che avrebbero voglia di scrivere. Aiutare a raccontare gli spazi.

Non è prendere senza dar nulla poiché viene mischiato con consigli che la rendono “un’esperienza di crescita personale per chi partecipa“. Questa mi sembra l’idea più importante di tutto l’incontro.

Il partecipante impara che il confronto è positivo, che scrivere non è facile e leggere è altrettanto importante, anche più che scrivere. 

Se uno ha la passione della scrittura fa bene a coltivarla, migliora la qualità della vita e aiuta anche a capire qual è la storia che vogliamo scrivere. Quella storia necessaria, per cui abbiamo un’ossessione, con cui dobbiamo fare i conti. 

Imparare a scrivere è un percorso, un’arte che ognuno deve perfezionare per fatti suoi. 

Quando rileggi quello che hai scritto fa sempre schifo, e va bene così! Perché cambi tu. Non necessariamente migliori, ma non sei più la stessa persona che eri mentre scrivevi quel pezzo che stai rileggendo, e questo anche perché l’hai scritto. Si impara dai propri errori e si cerca di fallire meglio. 

Una corsista che era anche all’incontro ha raccontato la sua esperienza. Dice che ha avuto un periodo in cui si chiedeva: “Esistono persone così brave e così più brave di me a scrivere là fuori, perché continuare a farlo io? Che rileggo quello che ho scritto e mi fa schifo?“. La risposta che ha trovato è che lo fai per necessità. Per toglierti il peso di quella storia che ti ossessiona

Prima si parlava e si ascoltava tanto, non c’era altro da fare. Oggi si paga per avere questo tipo di esperienze di confronto.

Siamo persone con relazioni; per questo motivo intendere le case come delle cellette in cui rinchiudersi dopo una giornata di lavoro e non come luogo di relazione è un’idea sbagliata. Bisogna stare attenti a ciò che rischia di isolarci, e le concezioni urbanistiche sono una di queste cose. C’è bisogno di qualcosa di nuovo. 

Ma domanda importante, la sappiamo riconoscere la bella scrittura? Possiamo fidarci dei giudizi sul bello dati dagli altri? È giusto o no che uno scrittore vada incontro al pubblico? L’importante, secondo loro, è che il Libro sia sentito dallo scrittore. Che scriva quello di cui ha bisogno. Per farsi accettare dalle case editrici serve anche fortuna nel trovare il lettore giusto. I canoni dello stile variano a seconda del momento storico e se cerchi di andare incontro ai gusti del pubblico, non arriverai mai a essere soddisfatto. 

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