DI EDOARDO VALENTE
“Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
noi portiamo la brocca e sferziamo la schiena della vacca,
falciamo e non sappiamo nulla dell’inverno,
beviamo mosto e non sappiamo nulla,
presto saremo dimenticati
e i versi svaniranno come neve davanti alla casa”.
Inauguro una serie di articoli dedicati all’autore Thomas Bernhard, della cui biografia ho già avuto modo di parlare all’interno della rubrica “Il cristallo”: quell’articolo costituisce il numero 0 di questa mia “Bernhardiana”.
Il primo libro pubblicato da Bernhard, nel 1957, è una raccolta di poesie intitolata Sulla terra e all’inferno. La poesia è la prima vocazione di Bernhard in qualità di scrittore, in seguito alla sua frequentazione della musica e del teatro.
Nell’anno successivo vedranno la luce altre due raccolte poetiche: In hora mortis e Sotto il ferro della luna, dopodiché, in modo molto particolare, Bernhard scivolerà verso la prosa, esordendo come romanziere.
Ma prima di arrivare a questo, voglio soffermarmi sulla poetica che emerge da ciò che ha scritto in quel periodo in cui fu esclusivamente poeta.
“[…] e allora con tutte le mie forze mi gettai nella scrittura, abusavo del mondo intero per trasformarlo in versi, quei versi, se pur privi di valore, significavano tutto per me, niente al mondo aveva per me maggiore significato, e io non avevo più niente, non avevo altro che la possibilità di scrivere poesie”.
Questo scrive Bernhard in Il freddo, quarto volume della sua autobiografia.

La poesia come unica via di fuga, unica salvezza, l’unica cosa a cui potersi aggrappare. Pensieri che possono attraversare la mente di molti adolescenti, così come attraversarono la mente del diciottenne Thomas Bernhard, che però si stava dirigendo in sanatorio per colpa della sua malattia polmonare.
Questo è il suo apprendistato poetico, il suo avvicinarsi alla materia duttile e incomprensibile della poesia, ispirato da Baudelaire, Verlaine e Trakl.
Forse per l’aderenza – e quindi la non originalità – rispetto alla poesia del suo tempo, forse per l’esuberante successo della sua attività di romanziere, le poesie di Bernhard vengono spesso tralasciate, accantonate, involontariamente dimenticate.
Eppure, sembra dircelo anche lui, in quei versi che ho scelto di riportare in apertura: “presto saremo dimenticati / e i versi svaniranno come neve davanti alla casa”.
Che sia questo il destino di ogni poesia, di ogni poeta?
Il Bernhard poeta cannibalizzato dal Bernhard romanziere.
Quella poesia di cui ho citato l’inizio, prosegue per altre due strofe, reiterando il tema del “Quest’anno è come l’anno di mille anni fa”, il continuo ripetersi delle vicende umane, l’impossibilità di sfuggirvi.
E in questo nostro identico ripetere la storia, ecco che la dimentichiamo.
“Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
non sappiamo nulla,
non sappiamo nulla del declino,
delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati
cavalli e uomini”.
Il vortice del tempo che annega la memoria.

Bernhard si muove attraverso un paesaggio oscuramente bucolico, in una natura ostile, malata e terribile, tutt’al più indifferente. Tenta la fuga in città, ma le città sono decadenti, soffocano e tormentano.
Nelle sue raccolte tornano ossessivamente alberi e uccelli sofferenti, oscuri; la luna e il sangue; lo spaesamento, lo sradicamento, l’assenza di una terra natia, di genitori e di Dio.
Quello di Bernhard è un monologo che diventa dialogo forzato con i morti, coloro che abitano davvero quella terra che lui non può abitare.
“Cerchiamo i morti,
da brocche nere beviamo febbre,
sogniamo la luna e le stelle
e beviamo e portiamo lutto,
e conduciamo cavalli e intrecciamo sacchi
e fabbrichiamo bare e andiamo a dormire”.
Le attività quotidiane si mescolano con la tragedia quotidiana: seppellire morti è come piantare alberi, da cui si taglia la legna, per il focolare e per la bara.
L’ambiente rurale in cui Bernhard è congelato ispira questo tipo di riflessione, di necessaria unione con una perenne devastazione.
La poesia, in tutto questo, diventa anch’essa rituale, riprende la forma del salmo, diventa meditazione sul dolore, eventuale accettazione. Così come Bernhard nella sua prosa si ripeterà vorticosamente, infinitamente, anche nella sua poesia sembra di scendere in un vortice che torna sempre sui suoi passi, nella ricorsività dei suoi temi, delle sue parole spaccate.
“Nessun albero e nessun cielo
ti consolerà”.
Leggere Bernhard non è consolatorio, ma disperante. E devo ripetermi in questo, perché la sua scrittura è questo, è questo continuo reiterare una sofferenza che sentiamo sempre, sentiamo nonostante le sue parole, ma questo suo scrivere perfeziona quel dolore.
Chissà, forse è questa una possibile definizione di letteratura: uno strumento che ti fa soffrire meglio.
Non significa di più, o di meno. Meglio.
Dare un nome a quel dolore che esiste senza letteratura, dal quale la letteratura non può liberarci, ma può aiutarci a dargli un nome.
Immaginiamo una lama piantata nel nostro petto: senza di essa non potremmo vivere, perché fa parte di noi. La letteratura non ci libera dalla lama: la affila. Così essa, liberata dalle scabrosità, penetra meglio nel nostro petto.
Fa più male, fa meno male? Non si sa. Ma lo fa meglio.
“inquieta anche la luna
e la sua falce che affonda nella mia carne”.
La falce della luna, grazie a questi versi, “la malattia di questi versi”, affonda meglio nella nostra carne.
Per questo noi stiamo sotto il ferro della luna, sulla terra che è inferno.
Bernhard ha pubblicato le sue raccolte di poesie con l’editore Otto Müller, lo stesso che pubblicò Georg Trakl – nume tutelare della poesia bernhardiana – nei cui confronti Bernhard provava quella che il critico Harold Bloom ha definito “angoscia dell’influenza”.
Questa angoscia è una teoria poetica, secondo la quale un autore, nel momento in cui si affaccia alla scrittura, ritrova in coloro che l’hanno preceduto degli anticipatori, qualcuno che ha già detto ciò che volevano dire, o che ha influenzato ciò che vorrebbero dire.
Bernhard stesso ha affermato: “L’influsso di Trakl sul mio lavoro fu devastante. Se non avessi mai conosciuto Trakl, sarei andato più lontano”.
E invece il suo cammino poetico si interrompe.
Nel 1961, quando Bernhard propone all’editore Müller una nuova raccolta, Gelo, lui la rifiuta.
Due anni dopo, appare il primo romanzo di Bernhard, anche questo intitolato Gelo.
Da questa strana, inspiegata, omonimia, muore il poeta e nasce il romanziere.


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