DI GIACOMO CAMISASCA
Uscire dalla pancia della balena, come Giona.
Uscire dal cuore della nave, facendosi strada tra le persone che hanno tutte il tuo stesso obiettivo e sogno, ricominciare a vivere.
Fuori si sentono i rumori della baia, una moltitudine di voci, grida, pianti e risate che si sovrappongono alla colonna sonora martellante ed epica di Daniel Blumberg.
Il protagonista, che vediamo di spalle, esce all’esterno, sul ponte della nave e finalmente la vediamo, la Statua della Libertà, simbolo del sogno americano, ma la vediamo capovolta, con la torcia che punta verso il basso, come a suggerirci che prima di arrivare in cima toccheremo il fondo più e più volte.

Sono questi gli Stati Uniti che vede László Tóth (Adrien Brody) appena sbarca a Ellis Island.
Sono Stati Uniti che hanno il profumo della rinascita ma anche l’olezzo di qualcosa di marcio che accoglie gli esuli instillandogli parecchie perplessità e timori.
Si apre così The Brutalist, il nuovo film di Brady Corbet (Vox Lux), si apre con una delle sequenze più imponenti degli ultimi anni (almeno per quanto mi riguarda).
La storia è quella di László Tóth, architetto brutalista ungherese, sopravvissuto agli orrori della seconda guerra mondiale e che per pura fortuna si è ritrovato su una nave diretta negli Stati Uniti.
László, una volta sbarcato nel nuovo mondo, si ritroverà catapultato in una realtà completamente diversa, lontano da quella che era la sua vita e lontano da sua moglie Erzsébet Tóth (Felicity Jones).
Partirà da New York e arriverà in Pennsylvania, ospite di suo cugino Attila (Alessandro Nivola), qui comincerà a creare ma allo stesso tempo scoprirà che anche in quella terra pregna di sogni, quelli come lui, non sono ben accetti.
La chiave di volta arriverà in seguito, quando László farà la conoscenza di Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un ricco mecenate che gli commissionerà un progetto monumentale, un progetto che diventerà il metronomo del film e una vera e propria ossessione per il protagonista.

The Brutalist è costato 10 milioni di dollari, è stato girato in 34 giorni e dura 3 ore e 35 minuti; sulla carta è un film impossibile, un film che non potrebbe mai essere prodotto, nemmeno dal più pazzo dei produttori, e invece eccolo qui.
Presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia – dove ha vinto il Leone D’Argento per la Miglior Regia – The Brutalist, che ha anche ricevuto ben 10 nomination ai prossimi premi Oscar, è uno di quei film che si imprime nella retina, che una volta terminato, non ti lascia, ma anzi ti accompagna per settimane.
Una pellicola che ti riempie di bellezza, grazie alla fotografia di Lol Crawley, ma che allo stesso tempo ti butta addosso la fatica e il dolore di László.
Un progetto mastodontico, girato interamente su pellicola 35mm formato VistaVision, che parla del conflitto tra arte e denaro, che parla di quell’odio nei confronti del diverso tremendamente attuale e che si poggia sulle spalle di un personaggio, László Tóth, che sembra uscito da un romanzo di Auster o di Roth.
Adrien Brody e Guy Pearce ci regalano due prove attoriali incredibili e il loro conflitto, il loro duello, ricorda – seppur in maniera differente – quello tra Mozart e Salieri nel film Amadeus di Miloš Forman.
Menzione d’onore a Felicity Jones e alla sua Erzsébet, un personaggio di una forza straordinaria che è la vera ancora di salvezza su cui László fa affidamento, rischiando – nella maggior parte delle volte – di schiacciarla, di ferirla.


Nel 1997 James Cameron, in una delle scene finali del suo piccolo film Titanic (200 milioni di budget), mostrava la Statua della Libertà come simbolo di rinascita.
Rose (Kate Winslet) guardava Lady Liberty sotto una pioggia scrosciante decidendo in quel momento di prendere il cognome di Jack (Leonardo DiCaprio) e ricominciare da capo la sua vita, in quella terra di opportunità e speranza.
Nel 2024 Brady Corbet apre il suo film – come scritto all’inizio – con quella stessa statua, ma capovolta.
László mantiene il suo nome e noi assistiamo ad una vita, o ad una parte di vita, quella di un uomo ferito e perso che – come le sue opere – è sopravvissuto alle erosioni della guerra e cerca la sopravvivenza in un nuovo mondo che potrebbe essere migliore, che potrebbe essere peggiore.


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