DI GIOSUE’ TEDESCHI
In questo incontro del Salone del Libro si è parlato di horror, fra tradizione e progresso.
Sai già quanto io sia un amante degli horror, se hai letto “The Lighthouse“. Potresti allora chiederti: Perchemmai sei andato a un incontro su un horror? Beh, sono stato ingannato. Mi era stato detto solo che si trattava di un videogioco, non che sarebbe stato un horror. Dopotutto i Saturnali erano una festività romana dedicata all’insediamento nel tempio del dio Saturno e alla mitica età dell’oro. Come potevo collegarlo a un horror?

Parlando delle specifiche del gioco possiamo dire che è ambientato in Sardegna, luogo scelto per merito della sua grandissima stratificazione generazionale. Lo stile è un Monster Maze; ovvero sei in un labirinto e c’è un mostro che ti insegue e da cui devi scappare. Tutto il gioco è impregnato di cultura sarda e soprattutto della simbologia di quei luoghi.
Ci hanno raccontato del delicato processo che hanno seguito per non snaturare la tradizione, basato su una Sardegna realistica attraverso una stretta collaborazione con il luogo e i suoi abitanti.
Ma quindi: come si scrive un videogioco?
Si inizia dai testi? Prima si disegna la storia e poi la si scrive? Ogni gioco ha una sua storia in realtà, non c’è un metodo che vada bene per tutti. Il punto importante da tenere a mente è che i giochi si giocano, questa è la tradizione – per quanto ovvia possa sembrare questa frase.
La traduzione nell’ambito dei giochi diventa localizzazione. Non è soltanto una traslitterazione, ovvero un ripetere cosa dicono i personaggi in più lingue, ma una localizzazione. Ovvero un lavoro di fino più vicino alla cultura, perché cambiano magari i modi di dire, di muoversi e quindi l’animazione dei personaggi per renderli adatti al luogo in cui viene giocato il gioco. Per fare un esempio, se due personaggi in italiano si salutano con un cinque, in giapponese non si salutano con un cinque, ma con un inchino. Mi scuso per lo stereotipo ma era per capirsi.

In questo gioco, Saturnalia, ci sono quattro personaggi e le situazioni della storia possono essere affrontate con un ordine diverso. Certo, questa libertà di movimento all’interno del gioco è una grande attrattiva per la vendita, ma come sviluppare una cosa del genere? Bisogna adattare i dialoghi alle sequenze di situazioni.
L’idea è di dividere la storia in unità narrative e poi unità di dialogo. In modo da creare dei blocchi narrativi. Questo crea una screenplay modulare, dove si inizia da uno schema, un flowchart delle reazioni e delle situazioni e si descrivono tutte le possibili combinazioni.
Dopo aver fatto ciò bisogna pensare ad aiutare il giocatore tramite scorciatoie o vie secondarie, spingerlo a esplorare. Sarebbe un po’ brutto se basassi l’ingresso di un’intera linea narrativa che ti ha richiesto ore di lavoro dietro il calpestamento di quella specifica asse del pavimento che il giocatore potrebbe non calpestare mai. L’obiettivo è sempre comunque quello di creare un’esperienza godibile.
Al giocatore deve essere data una scelta e deve sentire di averla: quale slot narrativo vuoi seguire? Certo non per forza deve poter intuire le conseguenze della scelta.
La scrittura dei dialoghi quindi sì c’è ed è importante, ma c’è anche la scrittura dell’ambiente, dei suoni, delle animazioni, tutto contribuisce alla narrazione. Ma allora quanto sono diversi libri e giochi? Dopotutto anche in un libro includi dettagli non legati al dialogo per rendere la storia immersiva. La differenza sta nel potere unico del videogioco: il tracking delle variabili, anche quelle che a una prima occhiata possono sembrare irrilevanti.
Punti a profilare il giocatore, controllare la storia su più livelli, personalizzare l’esperienza. Una parte molto difficile in questa fase dello sviluppo è capire dove andare a mettere i game over. Dov’è che puoi con una giusta motivazione interrompere l’esplorazione del giocatore?
C’è anche da pensare che non si può scrivere troppo testo per i dialoghi, perché poi deve stare sullo schermo, deve essere renderizzato. Non va trascurata la tensione e l’attenzione verso il linguaggio inclusivo, riconoscere cosa influenza la tua scrittura è molto importante quando si tratta di scrivere per un videogioco di respiro globale.
Esempio di linguaggio inclusivo può essere “vuoi uscire?” invece di “sei sicur**o** di voler chiudere?” oppure “hai finito di giocare?” quando si sta chiudendo il gioco.
Si è parlato dell’ambientazione occlusa del videogioco le scale che finiscono nel nulla (come nella Sardegna vera!), molto legate al teatro. Poi hanno fatto un brillante collegamento tra l’Intelligenza artificiale e il teatro post drammatico. Sarebbe possibile, integrando l’intelligenza artificiale, reagire in maniera spontanea alle situazioni create dal giocatore sapendo quali sono le informazioni che vanno comunicate. Così ogni testo per ogni giocatore che fa il gameplay potrebbe risultare unico, e non ci sarebbe bisogno di scriverlo perché sarebbe appunto generato sul momento.
Come nota finale il relatore ci lascia detto che non crede nell’iperrealismo. Non deve esserci la tua esperienza autobiografica, il gioco deve essere come un sogno, da cui ti svegli e già non ricordi bene cos’è successo. Ma ricordi bene la sensazione che ti ha lasciato.