DI EMANUELE PAOLETTA
Pochi poeti del Novecento hanno avuto l’ardire di proporre la riscrittura di un’opera tanto monumentale come la Divina Commedia di Dante (forse solo l’Ulisse di Joyce è riuscito appieno nell’intento, con l’Odissea; e col testo Pasoliniano condivide la spinta all’orizzontalità, al laico più che al divino); uno dei tentativi (falliti) è rappresentato da quello di un Pasolini quarantenne che, folgorato dalla lettura di un saggio del critico Contini (Un’idea di Dante, che si farà numerosi estimatori) e dalla lettura dei Quaderni di Gramsci sceglie di forgiare, proprio come il poeta fiorentino, una “lingua nuova”, scegliendo la forma della riscrittura “magmatica” (come la definisce lui) della più grande opera del Trecento.
Pasolini favoleggia di un’idea di riscrittura (o meglio, di mimesi, come vedremo più avanti) della Comedia dantesca già dal 1963, ma sarà solo nel 1975 che pubblicherà (postumi, riuscirà solamente a consegnare il manoscritto in casa editrice) i primi due canti, più varie note e “bozze” sotto il corpus di “Divina Mimesis”. Il titolo, con quel “mimesis” in risalto (mutuato da Auerbach e dalle sue teorie linguistiche sulla distinzione di una lingua più comunicativa – caratteristica che Pasolini attribuirà negativamente alla sua lingua nuova – e una più espressiva) è già importantissimo per la comprensione dell’opera, che si pone come pilastro non solo per lo studio della poetica pasoliniana, ma più in generale per una riflessione sulla condizione dei poeti in ogni secolo.
Leggendo la “Nota 2”, infatti, si ricava che il progetto del Pasolini era l’ambiziosa volontà di fondare una nuova lingua, o meglio, stabilire e canonizzare quella che lui chiama “Lingua dell’Odio”, cioè la nuova lingua, tecnologizzata, utilizzata dall’élite culturale del tempo, e per farlo aveva intenzione di usare l’impianto dantesco, quasi in sua contrapposizione (la spinta unitaria della lingua nazionale di Dante e quella rivoluzionaria di Pasolini); è qui che i Due Paradisi (quello neocapitalista e quello comunista) concepiti in ideale contrapposizione (nuovamente) con il Paradiso di Dante, con la loro nuova lingua, si dimostrano “Inferni” perfetti e irraggiungibili, a fronte di un popolo, poiché incapace di parlare quella lingua alta, elitaria, che viene lasciato indietro, sottomesso; mentre l’Inferno caotico, plurimo, reale è l’unica realtà da cui l’intellettuale Pasolini può tentare di operare una differenziazione e carpire il “realismo” da cui intuire la verità del suo tempo. E questa caratterizzazione della lingua infernale come “reale” avviene in Pasolini riprendendo la tesi che lo aveva più illuminato nel saggio di Contini, il plurilinguismo di Dante. Il critico infatti sostiene come il poeta sia riuscito, attraverso l’uso di una lingua multiforme e non solamente “bassa” o “alta” a restituire un’immagine della realtà molto più fedele che se avesse scelto di usare il solo latino o il solo volgare. La pluralità di linguaggi utilizzati diviene dunque per Pasolini il modo di definire davvero una “lingua nuova” di cui il popolo possa appropriarsi (mimesi) e utilizzarla per sé (in modo che distrugga la lingua dell’odio), delineando l’aspetto più importante del suo intento, cioè il “realismo”, l’avvicinamento al popolo, affinché la sua non risulti l’operazione di un borghese che a questa classe sociale parla, ma un’opera dal carattere universale.
Pasolini è quindi nel suo intento di diffusione di una lingua di reazione, una lingua composita e irriconducibile a una specifica classe sociale, tremendamente spaventato dall’essere preso per un borghese. Ed è per questo che le contraddizioni all’interno della Mimesis sono molteplici: al suo amore per Rimbaud fa da controcanto l’inciso “per questo è stato Hitler il nostro vero, assoluto eroe. Egli è stato il deputato dei Rimbaud di provincia, che hanno passeggiato sui selciati delle loro città con la stessa spavalderia con cui gli altri giovani piccolo borghesi […] hanno accettato il conformismo dei padri”; sostiene l’idea, appresa nel corso della lettura dei Quaderni di Gramsci, della nascita di una lingua comune che acculturi il popolo e lo liberi, ma non vuole che questo poi si “imborghesizzi” (quindi la cultura sì come liberazione, ma anche come mezzo per passare a una classe sociale piccolo-medio borghese – si veda a tal proposito l’idea di Pasolini della cultura borghese come prima forma di una volontà di violenza); di fronte al sé degli anni ’60 pone come guida il sé degli anni ’50, che è un “Maestro”, sicuro delle sue idee, ma anche “piccolo poeta”, poeta di campagna, che ha sempre paura di parlare “La lingua dell’Odio” e si sforza di non parlare nella sua lingua colta (perché parlare di cose banali trattandole come se fossero cose alte è da borghesi), ma nella lingua della mimesi.
È quindi forse nel quarto canto (o meglio, nei frammenti che ci sono pervenuti) che questa serie di stimoli, idee, esigenze e soprattutto, contraddizioni, sembra cadere e come si rivoltasse, acquista senso all’interno di una riflessione più generale. Ai poeti laureati di Dante, Pasolini contrappone dei poeti dell’Europa dell’est, che, poiché sovvenzionati dallo Stato e riconosciuti come poeti, non hanno quell’aria da piccolo-borghesi, ma ci appaiono comunque miseri perché nel vestire mantengono un’apparenza comune, di certo non aristocratica, mentre quelli italiani, coloro che non vengono riconosciuti dallo Stato nella loro mansione letteraria (e soprattutto i comunisti) sono i più miseri, quelli che dimostrano fin da subito, e anche nel parlare, la loro natura piccolo-borghese (sono infatti costretti ad avere un secondo lavoro oltre alla loro vocazione naturale). È qui che il letterato s’interroga sulla natura di poeta nella società del consumo: la poesia non può essere consumata in senso stretto, né può essere “venduta”, così il poeta che è solo poeta non può vivere, non può acquistare. E di un poeta dai suoi componimenti non si può nemmeno capire se sia povero o meno, perché potrebbe lodare la ricchezza così come la povertà, con una capacità di mimesi incredibile. È un cane che si morde la coda. Essere poeti ti può svincolare dall’essere un servo del potere, o ti può far diventare il suo più bieco aiutante (così come gli intellettuali conformisti del Canto VII, che avrebbero potuto non esserlo ma per paura del potere non si sono schierati contro le opinioni).
Ed è qui che risulta chiaro il collegamento con la Commedia di Dante: infatti, nonostante la sua natura di uomo “colto”, il poeta fiorentino era costretto a spostarsi di corte in corte per potersi assicurare vitto e riparo politico (e di certo non avrebbe potuto parlar male di un suo mecenate nella sua grande opera): forse potremmo azzardarci a dire (con una definizione di certo esagerata poiché fuori dal suo tempo) che Dante, nonostante non abbia risparmiato quasi nessuno nella sua Commedia, sia stato alla fine condizionato da quello stesso meccanismo di conformismo che settecento anni dopo Pasolini avrebbe condannato nei suoi frammenti. Di certo però non si può dire che la Commedia sia poesia che si possa vendere; è poesia nel senso che è indispensabile, è divina. È quindi nel vas electionis (già in Dante; Inf. II, 28), o meglio, vas reductionis (non è, ricordiamo, dall’alto che si giunge a narrare la verità) che Pasolini trova la forma compiuta del realismo e della realtà del poeta: quella di San Paolo che, illuminato sulla via di Damasco, dice di aver visto Dio (proprio come Dante, moderno Saulo accecato da una visione dell’aldilà nel mezzo del cammino). Quali sono i poeti che possono dire di aver davvero visto Dio? Virgilio? Rimbaud? Forse lo stesso Pasolini, anche se è più probabile che non potesse rischiare di venir preso per un mistico (la sua è dopotutto un’opera laica). Dante di certo. Perlomeno se lo augura.
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