DI MIRIAM PAOLETTI
“con un amore spaventoso, con angoscia, con ammirazione, con invidia, deve aver forgiato questo verso.”
Non ho il diritto di parlare di Dante.
Non ho il diritto di parlare di Dante, perché non l’ho letto.
Non ho mai saputo se si potesse aver il diritto di parlare a proposito di qualsiasi cosa e perciò ho sempre preferito non parlare; ancora oggi non sono davvero convinta di questo presunto diritto, e sempre più vorrei non dir nulla, tacere e lasciare che gli altri parlino senza di me.
Tuttavia, esiste, di noi, soltanto quanto diciamo, ed io non voglio accorgermi, ancora, di non essere esistita: io voglio poter esistere, ed il dire è far quanto posso affinché ciò accada.
Non ho il diritto di parlare di Dante, eppure ho letto Borges, e se neppure di esso ho il diritto di parlare, almeno voglio raccontare sinceramente quello di cui ho il diritto di parlare: ciò che di Dante io credo che sia caduto negli occhi di Borges, perché è ciò che di Borges io credo che mi sia rimasto.

Borges compie un atto quasi insignificante, la cui portata è stupefacente, almeno nelle conseguenze che da esso promanano: ricorda il Dante autore e immagina le parole del Dante protagonista sulla bocca del Dante autore, di modo che assumano diversi significati e si moltiplichino i piani del nostro poter vivere quelle parole; così facendo si propaga, nella mente, l’impressione di uno iato, d’una spaccatura, così profonda da non poter essere più ripensata, la noncuranza dello iato, prima di quel piccolo atto in sé banale. Borges scrive a proposito dei minuscoli frammenti del meraviglioso che Dante aveva vissuto in terra e che aveva serbato e custodito nelle dita delle mani, nelle parole; sembra quasi di poter pensare che la costruzione del meraviglioso risulti tanto genuina quanto quella stessa costruzione s’avvicini ad una motivazione che, da quaggiù, possa sembrare reale: quasi spaventa osservare la costruzione del magnifico dinnanzi ad una congettura piccina, oscura, riguardo ai pensieri del Dante autore, che però diviene rivelativa.
Borges descrive, in particolare, due scene riguardanti il suo incontro con Beatrice: la prima, quando la incontra nel paradiso terrestre (“l’incontro di un sogno”), la seconda, nel trentunesimo del Paradiso (“l’ultimo sorriso di Beatrice”).
Non descriverò le scene, poiché non potrei voler sostituire Borges, ma proverò a raccontare ciò che la mia mente ha catturato.
Il pensiero può divenire l’Inferno più atroce per chi avrebbe voluto soltanto – e dico “soltanto” intendendo che costui avrebbe voluto solamente quella cosa e null’altro – che l’esistenza ripiegata nel suo cuore combaciasse con l’esistenza appena accennata al di fuori del suo cranio. Per Dante, Beatrice esistette infinitamente, tanto quanto può esistere un Dio per chi agogna la salvezza, un senso. Tuttavia, Borges ricorda: quanto è potuto esistere Dante per Beatrice? Nulla, o pochi ricordi superflui, e Dante non poteva dimenticare d’esserne consapevole, nemmeno immaginando. Dicendo questo, la Commedia si tinge di diverse sfumature: essa stessa si mostra come la volontà ferita, disperata, di costruire un luogo, circoscrivere uno spazio di magnifico, celato e sottratto all’immodificabile solidificazione dei fatti, che fosse capace di custodire ed essere fonte della possibilità magica degli incontri che più d’ogni altra miserabile cosa Dante avrebbe voluto che avvenissero, che esistessero nella mente di Lei, reali, tangibili, tanto quanto nella sua essi erano ora irreali e fragili, solo immaginati. Avrebbe voluto soltanto poter decidere della possibilità dell’avvenire di quegli incontri, concretizzatosi esclusivamente dentro la sua mente, e perciò li mise nel Paradiso, il luogo ritenuto più adatto per la sua amata Dama: volle provare a costruire, nel suo pensiero, la pace, ciò che avrebbe voluto che fosse, davvero esistente, in lui, con la parvenza d’una realtà. Ma il pensiero è l’Inferno per chi desidera lo sguardo di quel Dio personale più della sua stessa pace: il pensiero crea quei paradisi di vetro e poi li scaglia nel reale, non resiste alla commedia della finzione; ricorda i fatti, quei fatti, e mostra i vetri nudi del Paradiso, e derealizza e nullifica e scarnifica ciò che esiste: come può essere vuoto questo pieno?
L’Inferno non è ciò che non è avvenuto. L’Inferno è il pensiero che ricorda e ripercorre interminabilmente l’amore che avrebbe voluto che esistesse.
E Borges lo sa e nota come Dante non possa trattenerlo, nemmeno se farlo significherebbe evitar di contaminare il Paradiso: sempre, ogni volta, Beatrice si allontana da Dante. Pure nel Paradiso, pure immaginando, pure se lui stesso è il burattinaio del Dante protagonista e delle gesta di tutti gli uomini di quel piccolo microcosmo, il quale sarebbe dovuto essere il suo Paradiso, pure nel luogo da lui creato dove egli in assoluto esiste, lui non può esistere, perché il suo non esistere per Lei nullifica ogni possibilità d’esistere per sé. Sempre, in tutti i possibili ed immaginabili paradisi di vetro, rientra l’Inferno, l’Inferno dilaga, viene ad essere; sempre, Beatrice distoglie il proprio sguardo dagli occhi supplichevoli di Dante: anche nel Paradiso, Dante non potrà esistere per Beatrice. Pur nel luogo ove regna la pace di Dio, quella pace, non può essere la pace di Dante: poiché quella che Dante avrebbe voluto per sé sarebbe stata ovunque, persino all’Inferno, dal momento che, quell’Inferno, Inferno non sarebbe stato, per il suo cuore, per il suo pensiero, se all’Inferno lui ci fosse andato con lei, “questi, che mai da me non fia diviso”. Se per l’uno sarà l’Inferno, per l’altra, Beatrice, non sarà neppure tanto dolore: e neppure un Dio giusto potrà ricucire tale strappo; Dante ha peccato, Dante non doveva far esistere Beatrice così tanto più di quanto lei fece: nessun amore deve esistere in questa discrasia.

Mi chiedo: quanta esistenza può contenere un cuore? Fino a quale quantità di esistenza si può tollerare la discrasia? Sarà reso Dio chi è stato capace di contenere tanta esistenza? Dante lo è stato. Per me, Borges, altrettanto.
Per chi è capace di contenere tanta esistenza, il pensiero sarà l’Inferno: saper far esistere è un potere divino, ed il luogo a cui conduce tale potere non può che essere l’Inferno. Eppure, due considerazioni finali: in primo luogo, se questo Inferno è capace di creare tanta meraviglia, allora, forse, anche l’Inferno merita di esistere, finanche in Paradiso; d’altro canto, chi ha il poter di far esistere, può aver anche il potere di privare dell’esistenza chi, per lui, è esistito più di quanto egli sia esistito per l’altro, più di quanto esso esisteva per sé. Anzi, immagino sia un potere ancor più grande poiché è la conseguenza sofferta del primo: attraverso l’evidenza bruciante dell’Inferno, allora, la pochezza della quantità d’esistenza dell’altro sarà la cancrena inconciliabile dell’amore e del rapporto, dal momento che diverrà l’incommensurabile distanza fra chi ha fatto esistere e chi non ha fatto esistere.
Per quel cuore, esisterà solamente il ricordo dell’Inferno di Beatrice in Paradiso, non più, mai più, Beatrice.
Per quel cuore che ha fatto esistere, quell’esistenza non esisterà più.
“l’irrecuperabile Beatrice”
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