DI EDOARDO VALENTE
Il Mozarteum di Salisburgo era il peggiore istituto musicale del mondo, così scriveva Thomas Bernhard, che non andava a capo e metteva pochi punti, e che al Mozarteum ha studiato canto, perché lo scrittore Thomas Bernhard, un virtuoso della prosa, uno dei più importanti scrittori austriaci del Novecento, forse il più importante tra gli scrittori austriaci del Novecento, voleva cantare e aveva deciso di studiare al Mozarteum. Suo nonno lo aveva avvicinato alla musica, ma anche alla letteratura, perché suo nonno, che era Johannes Freumbichler, era uno scrittore anche se non molto famoso e Bernhard lo ammirava ma voleva anche distanziarsene, portare quell’eredità altrimenti risultava soffocante come lo era il Mozarteum e Salisburgo tutta e l’Austria intera. La vita intera per Bernhard era soffocante, una prigione malata, atroce, così come i salisburghesi. I salisburghesi sono sempre stati atroci, così scriveva Bernhard. Soffocare sembrava essere l’unica possibilità di Bernhard, che fu ricoverato per una pleurite, per poi ammalarsi di tubercolosi, ricevere l’estrema unzione ma sopravvivere, mentre contemporaneamente moriva suo nonno, Johannes Freumbichler lo scrittore, e inizia a scrivere Bernhard, costringendo la madre a leggere le sue poesie, finché anche la madre è morta, e Bernhard ha vent’anni e nella disperazione più assoluta, nel suo dolore rimuginante, nella solitudine della sua esistenza minacciata dalla malattia conosce l’unica persona, la persona della sua vita, così scriveva, una donna di trentasette anni più grande, Hedwig Stavianicek, figura amata, materna, nume tutelare. Rimangono in stretti rapporti per trent’anni, fino alla morte di lei, cinque anni prima della morte di Bernhard, ovvero quando lui ha cinquantatré anni, e lei lo introduce nell’ambiente intellettuale, e altri amici gli permettono di pubblicare su riviste, e si sedimenta in lui la scrittura, che diventerà una delle più originali del Novecento, caratterizzata da monologhi senza fine di personaggi isolati, tutti riflessi imprecisi dell’autore, che iniziano a pensare e a scrivere all’improvviso, in quella che diventa la prima pagina, e non smettono fino all’ultima riga dell’ultima pagina, ripetendosi, non andando a capo, lasciando che il flusso della scrittura vada avanti incessante, dirompente come un fiume, un corso d’acqua che produce un rumore costante, inarrestabile, perturbante. Tutta la nostra esistenza dev’essere concentrata esclusivamente su questa possibilità, e cioè come e in quale modo possiamo trasformare e infine trasformeremo questo mondo che non è il nostro, così Roithamer, così scriveva Bernhard, con citazioni indirette confuse con il testo diretto, ovvero l’unico modo che aveva davvero per trasformare il mondo, cosa che ha fatto, attraverso l’inarrestabile virtuosismo della sua prosa. Un musicista mancato, questo era Bernhard, che faceva rivivere la musicalità nei suoi scritti, ripetendo le frasi come si ripetono i ritornelli, come ritornano i temi nelle sinfonie, l’intera sua opera, tutto ciò che ha scritto, non è che una serie di variazioni su uno stesso tema, un monologare interminabile attorno alla vita, sua e degli altri che infine diventa anch’essa sua, per far emergere la disperazione da cui non poteva liberarsi, nemmeno ricevendo riconoscimenti concreti (denaro) e ufficiali (premi). Ogni cosa è ridicola se paragonata alla morte, così scriveva Bernhard in occasione della consegna di un premio nazionale, e la sua nazione l’ha sempre detestata e per questo lo chiamavano sporca-nido, e per questo non voleva che i suoi libri venissero pubblicati in Austria. La mia città d’origine è in realtà una malattia mortale, così Bernhard, e da questa malattia mortale non è riuscito a scappare ma ci ha girato attorno, costruendo la spirale della sua letteratura attorno a questa malattia, che era malattia della nascita e della vita, malattia della solitudine e del suicidio e della disperazione. Bernhard è un sopravvissuto al suicidio, non un sopravvissuto alla vita. Isolato scriveva di persone isolate, malato scriveva di persone malate, scriveva di persone che scrivono, che tentano di raggiungere la perfezione irraggiungibile e che soffrono in questo tentativo che diventa però necessario, soffrirebbero di più nel non tentare di raggiungere la perfezione, invece si riservano esclusivamente la sofferenza del fallimento nel raggiungere la perfezione. Tu per me sei un esempio di come la ben nota tragedia dell’esistenza umana possa essere trasformata in una commedia piacevole da sostenere, senza gettare la spugna o rifugiarsi in consolazioni spirituali, così scriveva Hedwig Stavianicek commentando un’opera di Bernhard. Bernhard non ci consola e anzi scava sempre più dentro di noi innestando con la sua scrittura una spietata visione del mondo, senza la quale, però, il mondo stesso risulterebbe ancora peggiore, una tragedia che non viene raccontata non è che un evento terribile e quando viene raccontata diventa tragedia, che è arte e può contenere in sé una ragione che non viene dalla realtà ma dalla voce umana, per quanto spietata possa essere.
A capo.
Si soffoca anche leggendo Bernhard, pagine senza respiro, senza pause, senza interruzioni, senza vuoto. Incessante era anche la sua scrittura, prima articoli poi poesia poi romanzo e teatro, e sono i suoi romanzi a spiccare sopra la sua intera produzione e il perché non ci è dato saperlo, Bernhard riceveva premi e li ritirava ma poi li criticava, aveva successo come scrittore e poteva permettersi di comprare una cascina abbandonata, e poi altre due, e ristrutturarle e fare di questo un progetto di vita. Aveva successo e faceva amicizia con molte persone e poi rompeva le amicizie e solo poche furono le persone con cui rimase in buoni rapporti, tra cui l’amata Hedwig e il fratellastro Peter Fabjan, medico che lo assisterà negli ultimi momenti di vita, quando attorno a lui l’umanità era raggelata e non rimaneva altro che il suo respiro e il suo pensiero. Thomas Bernhard si chiamava di cognome Bernhard perché l’aveva ereditato dalla madre Herta Bernhard essendo nato fuori dal matrimonio, e la madre si chiamava Herta Bernhard e non Herta Freumbichler perché era nata fuori dal matrimonio, per due generazioni si sono tramandati cognomi materni e Thomas Bernhard per questo si chiamava Bernhard. Noi diciamo pure di amare i nostri genitori, e in realtà li odiamo, perché non possiamo amare noi i nostri procreatori non essendo noi persone felici, così scriveva Bernhard, pessimista e infelice e antinatalista, che detestava tutto ciò che l’ha messo al mondo e il mondo in cui è nato, dalla famiglia alla città allo Stato d’origine, tutto in Bernhard è fuga senza via di scampo dall’origine, che è una malattia mortale. Ma naturalmente l’uomo non riesce a liberarsi di nulla, così scriveva Bernhard, e auspicava che in questo mondo in cui siamo capitati ognuno possa scavare abbastanza a fondo, in sé stesso o attorno a sé, per ricavare lo spazio necessario per non soffocare, per poter dire che il mondo è anche suo, e non solo di chi in quel mondo lo ha imprigionato. La mia vita, che è la mia prigione, mi appartiene, è questo che dovremmo riuscire a dire, almeno a bisbigliare nel silenzio interiore. E leggere le opere di Bernhard, che sono esempi di virtuosismo della prosa, è un’esperienza che non si può raccontare e che forse si riesce a vivere, forse a intuire, non agendo ma lasciando che le parole agiscano su di noi e ci corrodano come acido, che rimuove le impurità, la ruggine dalle sbarre della nostra prigione, che rimuove dal legno storto della nostra vita, a colpi d’ascia, le eccedenze, le radici morte e ancora incastrate in un terreno non nostro, inaridito dal tempo e dall’inazione. Lasciare che queste opere agiscano su di noi silenziosamente come un corso d’acqua che scorre sotterraneo e che, non visto, a mala pena udito, scava la pietra dura delle nostre convinzioni. Ripuliti, smussati, levigati, anche disintegrati dalle opere di Bernhard, ecco che sapremo a quel punto, finalmente, che non esiste per noi salvezza o via di fuga, e capiremo che è una buona notizia, perché fuggire non era mai stata nostra intenzione, sopravvivere non era mai stata nostra intenzione, ma vivere sì. Una letteratura estrema, solo questa, ci fa vivere.
