DI CHRISTIAN PAROLIN
Accadde un giorno che una coppia di rapinatori sbagliò il colpo e si ritrovò a filare con la lingua penzoloni per le strette vie di Torino. Si levarono i passamontagna e presero fiato dentro a un cassone dell’immondizia in un vicolo.
«Lo sapevo» disse il rapinatore più alto. «Sapevo che puntare quel bar era troppo ambizioso per noi».
Il suo compagno, che sentiva di aver perso i polmoni nella fuga, si grattò forte il braccio.
«Smettila di grattarti» gli disse il compagno, «ti viene l’eritema».
«Mi mette il nervoso il tono che hai. Sembri felice che abbiamo fallito».
«Io lo dicevo fin dall’inizio che quel bar aveva la sicurezza. Quanto avrà avuto in cassa, trecento euro?».
«E allora perché la sicurezza? Conosco la proprietaria. È strapiena di liquidi che tiene infilati in qualche buco. Ne sono certo, perché ha perso la casa un anno e mezzo fa».
«Qualcosa non quadra nel tuo discorso».
«Ha le braccine. Ti conta gli spiccioli davanti al naso».
«Usciamo di qui, per piacere».
Nonostante i numerosi testimoni, nessuno li aveva seguiti.
«Dividiamoci» disse quello con il prurito. «Prendiamola larga. Ci vediamo alla macchina».
L’avevano lasciata al secondo livello del parcheggio alla stazione Stura, più di cinque chilometri con l’angoscia che spezzava ogni respiro.
Quello con il prurito arrivò per primo. Entrò in macchina e si accucciò sul sedile. Sapeva di non avere cibo ma aprì lo stesso il cassetto sotto il cruscotto e controllò le tasche delle portiere. Nella stazione non c’erano distributori, solo fontane, entrambe nel parchetto lì davanti. Scoprì di avere la gola piena di spilli e la lingua paffuta. Era però troppo rischioso.
Lo era di più non bere.
Innanzitutto, si raddrizzò e si guardò intorno. Poi uscì dalla macchina. Gli venne automatico procedere ingobbito. Almeno piovesse, pensava; c’era un sole così caldo che gli faceva prudere anche la pelle sotto ai vestiti.
Scese al piano terra; non c’erano autobus in sosta e nessun passeggero in attesa. Uscì dal parcheggio. Cercò il cellulare ma non lo trovò. Se l’aveva perso nella fuga era fregato. Ma la missione era non svenire e dunque raggiunse una delle fontanelle e calò il viso sotto al gettò. Fresca, dolce, meglio del malloppo che non avevano neppure visto.
Dov’era il suo compare?
Quando ebbe raggiunto le scale assistette a questa scena: una donna che menava un ragazzo seduto su una sedia a rotelle. Gridava pure: «Mi costringi a toccarti! Alla prima occasione… alla prima volta buona che mi capita…».
Il rapinatore si fece avanti, disse: «Posso esservi d’aiuto?».
Un no secco fu ciò che si beccò, la donna nemmeno si voltò.
«A me sembra di sì». Afferrò la tipa e la spinse da parte. «Dove sta il problema? Dovete salire?».
Anche dal ragazzo si beccò un no e questo fu diverso, fece più male.
«Io voglio darti una mano e tu mi ti rivolgi in questo modo?».
Prese il ragazzo per i capelli e lo strappò via dalla sedia. La donna urlò. Il ragazzo aveva le gambe mozzate.
«Oh, cazzo, non pensavo…».
La donna si spazzolò le maniche del cappotto (roba da boutique) e affrontò il rapinatore.
«Leva le mani da quella sedia, costa dodicimila euro. Ho riconosciuto la tua faccia, faccio le parole crociate e ho una buona memoria. Facciamo che adesso porti il tuo tanfo lontano dalla sedia da dodicimila euro, accetti la mia carità e chi si è visto si è visto».
«Mi hai riconosciuto? Cosa vuol dire?».
«Che ti ho visto rubare».
«Ma è impossibile…».
La donna si rovistò nelle tasche e ne trasse due banconote da venti.
«Mamma» disse il ragazzo. «Rimettimi sulla sedia, ti supplico. Muoio dal dolore».
Era steso faccia a terra, non ne veniva fuori.
«Non sono tua madre» disse severa la donna. «Dai, prendi ’sti soldi e sparisci».
Il rapinatore lasciò una manopola della sedia e sollevò la mano. Poi puntò il dito contro la donna.
«Non credo di aver afferrato».
«Prendili e levati dal cazzo» gridò il ragazzo, che a momenti frignava.
Non lasciarono al rapinatore il tempo di riflettere. La donna gli mollò uno schiaffo e tentò di riprendersi la sedia. Lui si difese, né più né meno.
«Grandioso, figlio di troia» disse il ragazzo e bestemmiò pure. «Tu non arrivi alla prossima settimana, vai tranquillo che schiatti».
Il rapinatore colpì anche lui, poi prese la sedia e tornò alla macchina. Che non c’era più.
Mettiamola in questo modo: il rapinatore ha agito da solo, e per la verità non ci ha nemmeno provato. Diciamo che è entrato al bar con l’intenzione di, ha puntato gli occhi su diversi angoli giusto per, ma si è fatto pigliare dalla fifa. Si è bevuto un caffè perché sì, è uscito e ha passeggiato per smaltire la frustrazione. Lui è un ladro per davvero, capite? Ha già messo a segno quattro furtarelli per un totale di centoventotto euro e un pugno di bigiotteria; questo accadeva otto anni fa, e da allora ci ha provato con tutto sé stesso a sopprimere la voglia di invadere l’intimità altrui, ma si era procurato una mezza ulcera e parecchi esaurimenti nervosi. Non è per denaro, il bottino lo dà in beneficenza alla chiesa di San Mauro e a fare l’insegnante di storia e geografia alle medie si mantiene bene, vive solo; è una questione di vocazione.
Eravamo rimasti che tornava alla macchina ma la macchina non c’era più. Facciamo che per questa rapina aveva preso i mezzi. La sedia a rotelle ancora c’era. Aveva deciso di passare per Stura per guadagnare tempo e riflettere sulla strategia d’azione (il passamontagna se lo portava sempre dietro) ed era successo quello che già sappiamo. Ora c’era da capire come portare a casa una sedia a rotelle senza farsi guardare male. Decise che ci si sarebbe seduto.
Fu un’esperienza. L’autista si prodigò per agevolargli la salita e la discesa e una vecchiarda avrebbe pregato tanto per lui. Lo fece sentire dannatamente in colpa.
A casa si cucinò due bistecche e una fetta di polenta (cibo che non toccò) e provò a dormire, ma la mente non gli diede pace. Vagò per casa senza perdere di vista la sedia a rotelle; ci montò su e girò con quella. A un certo punto si sentì ridicolo e si limitò a spingerla.
Di questo passo, la storia del rapinatore si farebbe noiosa. Che cosa diavolo ci deve fare lui con la carrozzella? Il finto invalido è un gioco d’azzardo.
Aggiungiamo una compagna con un nome rispettabile. Lucia è fedele, fa la maestra d’asilo e ha conosciuto Lele a un concorso statale. Lei avrebbe voluto insegnare musica alle medie, la ruota non ha girato, ma in compenso adora i bambini. Lei non può averne perché da piccola ha sofferto di una brutta malattia che l’ha lasciata sterile. Suona il flauto e l’ukulele e ha frequentato il conservatorio per due anni, prima di capire che non ha la stoffa per fare della sua passione una professione.
Fatalità, un’ora dopo che Lele è partito per Stura – dice che deve incontrarsi con un amico storico, tale Samuele – Lucia esce in giardino per qualche motivo, la temperatura elevata la coglie di sorpresa, è una donna gracile e mangia molto poco per ragioni etiche tutte sue, ha un calo di pressione e perde i sensi. La vicina sul lato est esce in quel momento e la vede a terra che piange, la porta al pronto soccorso e da qui Lucia chiama Lele. Lui cosa fa: prima di raggiungerla passa per casa e lascia la sedia a rotelle accanto all’uscio.
Il dottore sistema Lucia e, quando è ora di andare, Lele rifiuta la sedia a rotelle dell’ospedale e anche le stampelle.
«Che hanno che non va?» domanda Lucia. «Ti vergogni di avere una compagna invalida?».
«Ma quale invalida e invalida! Può capitare a chiunque. C’è una sorpresa che ti ho fatto».
Lucia guardò la sedia a rotelle e poi Lele.
«Oh, Maria, ti è costata quanto? Un anno dei nostri stipendi messi insieme?».
«Era in offerta».
Le disse di provarla.
«Ha il motorino, è alta e ha i cerchi in carbonio. Lele, esigo di sapere quanto hai speso».
Il suo tono di voce sottile, timido ma perentorio, dava a Lele il prurito.
«Duemila».
«Oh, Maria».
Lucia si lasciò andare fra le sue braccia. Lele si era spinto per un bel po’ e gli bruciavano i muscoli e così la fece scivolare sulla sedia a rotelle.
«Come ti pare? Comoda?».
«Hai speso duemila euro per questa?».
«E smettila. Provala, su».
Lucia scovò subito il pulsante del motorino. Lele pensò a quanta fatica avrebbe risparmiato.
Mentre guidava per il soggiorno, Lucia gli chiese: «Ma, Lele, come facevi a sapere che ne avrei avuto bisogno?».
«Questa mattina mi sono alzato con i superpoteri».
«Vorrei che fossi meno burlone e più uomo».
Lele si sentì prudere l’incavo del gomito.
«Mi ha chiamato Clemen poco dopo che è tornata a casa. Io ho fatto delle ricerche e ho trovato questa su Subito».
«E hai concluso l’acquisto nel giro di qualche ora?».
«Il venditore è di Settimo».
Lucia si fermò.
«Questa coincidenza mi puzza».
«Lucia, mangi solo verdure e legumi, chissà cosa fermenti in quella pancia rotonda che hai».
Finì che Lucia accettò la sedia e Lele smise di pensarci.
Fino a che…
Quindici giorni dopo, in un bel tardo pomeriggio, venne mandato in onda un servizio a La Vita In Diretta, uno dei programmi che Lucia teneva in sottofondo mentre sbrigava le faccende domestiche. Era ora di cena, puliva le verdure per farci il cous cous. Una donna piangeva per un’aggressione e un ragazzo con la faccia da ritardato supplicava affinché il ladro gli restituisse la sedia a rotelle, era il motivo per cui non si era suicidato dopo che l’incidente gli aveva rubato le gambe. Non ricordavano il volto dell’aggressore, solo che aveva la pelle molto irritata.
«Lele, hai rubato questa sedia?» disse Lucia a tavola.
Lele si grattò il collo.
«Rubato?».
«Lele, niente menzogne. Hanno fatto vedere la foto in tv. È la medesima».
«Ero preso dal panico per la chiamata di Clemen, non sapevo che fare».
Le raccontò l’episodio con la sola omissione dei pugni.
«La donna dice che l’hai picchiata».
«In testa c’avevo solo il bene tuo. Non so che mi è preso».
Lucia allontanò il piatto mezzo pieno da sé. Rifletté.
«D’accordo, terrò questa seggiola finché mi servirà, poi ce ne sbarazzeremo. Lo farò io, tu non ne sei capace. È la prima volta che combini una marachella di questa portata e ti perdono».
Era fatta così, Lucia.
Abbiamo imboccato una strada scorrevole, direi che facciamo come ha detto Lucia.
La sedia a rotelle le servì per due mesi e mezzo e sarebbero stati meno se avesse dato ascolto al medico e avesse mangiato di più, ma il digiuno era il sentiero per il Divino.
Come sbarazzarsi di una sedia a rotelle che ha visto tutta Italia?
Lele propose di tenerla in casa, ma Lucia disse che portava sfortuna. Farla a pezzi dispiaceva a entrambi, perché valeva un sacco di soldi sarebbe stato un vero spreco.
Lele decise di donarla alla parrocchia.
«Che baggianata» disse Lucia. «Cosa se ne fa una parrocchia di quella sedia a rotelle?».
«Allora la porto alla Casa della Speranza o, meglio, al Trenino Mauro, quello in centro. Ci passo a volte e molti dei ragazzini lì sono disabili».
Lucia metteva in ordine delle schede.
«Troppo rischioso».
«Tu vuoi venderla, vero? Vuoi farci i soldi».
Lucia infilò la pila di fogli in una cartellina.
«Decidi» disse Lele. «O la si tiene o la si dona».
Il gancio della cartellina scattò e parlò per Lucia.
Non c’è verso di piegare Lucia; poverina, con l’infanzia che ha dovuto passare. A noi però serve un espediente per concludere la storia e decidiamo che Lele fa di testa sua e dona la sedia a rotelle. Mettiamo che scarti la Chiesa della Speranza e il Trenino Mauro perché troppo vicini, vogliamo che la cosa resti lontano da San Mauro. Ma anche a Torino desterebbe domande; Lele sceglie Leinì (per onor di cronaca, preciso che parte all’arrembaggio nel suo giorno libero).
Leinì era un paese poco familiare, vi si era recato un paio di volte per delle supplenze dell’ultimo minuto. Lasciò la macchina in uno spiazzo abbandonato e girò per i parchi e le aree gioco, ma a Leinì nessuno pareva invalido. Spese tutta la mattina e il primo pomeriggio, senza mangiare nulla. C’era tanta umidità e più volte si sentì mancare; all’ennesimo colpo, senza pensarci, si sedette sulla sedia e si spinse sotto la tettoia di un benzinaio, al riparo dal sole. Era cotto, aveva scordato persino di azionare il motorino.
«Hai intenzione di ficcarti la pompa in culo?».
A parlare fu la voce di una giovane donna alle sue spalle. Senza voltarsi, Lele lasciò il posto e andò a mettersi in uno dei parcheggi, il più esposto al sole. La testa gli prudeva da matti e dai vestiti colava sudore semisolido (Lele sudava parecchio).
Una macchina gli si fermò accanto.
«T’abbronzi?».
Lele la guardò male e si girò per andarsene.
«Neh che gradisci un passaggio?».
Lele seguitò a spingersi, ma le braccia smisero di rispondere.
«E sali. La carrozza sta sul portabagagli».
La ragazza scese dall’auto e prese Lele, lo fece salire e gli chiese come si piegava la sedia.
«C’è il modo».
«Dici, eh? Hai sentito la storia della sedia a rotelle rubata qualche giorno fa? Era un modello come questa qua, tale spiaccicata».
«Ah».
La ragazza riuscì a piegarla. L’aria condizionata era oro puro per Lele.
«Dove stai?».
«Lasciami alla fermata del bus più vicina».
«Ma se manco riesci a respirare. Se c’hai la carrozza non abiti lontano».
«Lasciami in Piazza Michelangelo».
«Là stai?».
Lele disse di sì e la ragazza partì.
L’idea è questa: la ragazza non sta a posto con la zucca e vuole anche lei una sedia a rotelle con il motorino per non camminare più. Lele le dice che è quasi guarito da un’operazione al ginocchio e che può darle la sua. Non c’ho una lira, dice lei; non ne voglio, dice lui. Lei si rifiuta di ricevere in regalo una sedia costosa, quattro minuti dopo accetta. A una condizione.
«Devi rompere il ginocchio pure a me».
Lele rise.
«Prendimi sul serio. Già mi tocca accettare il regalo, almeno ho un motivo per usarla».
«Ma scusa, perché non la rivendi?».
«I regali non si vendono, maleducato. Io mi sono rotta di camminare, gli invalidi hanno una cifra di privilegi. Dai, spaccami il ginocchio. Tu che hai fatto?».
«Sono caduto».
«Cadimi, allora. Come hai fatto?».
«Tu non stai bene. Mi arrangio per tornare».
La ragazza scese a sua volta.
Lele si bloccò, il sudore riprese a colare e la pelle a pizzicare.
«C’hai rubato la sedia, eh?».
«Come ti permetti?».
«Senti, a me non mi interessa, io la voglio perché non c’ho voglia di camminare. Solo che la mia coscienza starebbe più a posto se avessi un qualcosa di rotto alle gambe».
Le mani di Lele saettavano da un posto all’altro del corpo per grattarsi in tutti i punti.
«Se ti aiuto, mi prometti di non dire niente riguardo alla sedia?».
«Certo. Quella era una ricca schifosa. C’avranno altre otto di sedie come questa».
Si strinsero la mano e idearono un piano.
«Piano, però, eh».
«Non posso spaccarti piano il ginocchio».
«Allora fai più veloce che puoi».
Lele prese il cric che c’era in macchina. La ragazza era stesa su un fianco, in un parcheggio vuoto nella zona industriale. Teneva la gamba tesa, Lele doveva colpire il lato del ginocchio.
«Al mio tre» disse lei. Prese un bel respiro. «Tre!».
Lele non se l’aspettava. Restò con il cric a mezz’aria.
«Tre, Cristo di Dio!».
Lele chiuse gli occhi e calò.
Per calare cala, ma non su una ragazza. Su sua mamma.
Ebbene, Lele non si chiama Lele ma Giuseppe e vive a San Mauro con la madre, Gianna, la quale non solo è a conoscenza del vizietto del figlio (che non è un ladro di professione ma più un cleptomane i cui colpi messi a segno saranno ad oggi una cinquantina), lo incoraggia pure. Giuseppe percepisce l’assegno di disoccupazione da un anno e mezzo, da quando non ha più voluto fare il vigile urbano. Gianna percepisce la minima e stare senza soldi le è sempre stato sulle palle. Purtroppo il destino ha voluto che facesse l’operaia.
Giuseppe calò un martello sul ginocchio della madre.
A Gianna le si erano bagnati gli occhi alla vista della sedia.
«Con questa ci tiriamo su minimo duemila euro».
«Non posso venderla».
«Ma stai zitto, fallito. L’unica cosa buona che hai fatto negli ultimi trent’anni e te ne vuoi disfare?».
Sappiamo già che ne pensava Giuseppe. Aspettò che sua madre si addormentasse, prese il martello e le ruppe un ginocchio. Voleva solo farle un pochino di male. Solo che sbagliò di un pochino la mira. Le spaccò il cranio. Lui stesso rimase a bocca aperta. Di sicuro c’era una motivazione inconscia ma Giuseppe non possedeva la facoltà mentale di interrogarsi su certe questioni. Ce n’erano altre di ben più urgenti.
Avevano un piccolo giardino posteriore e una vanga bella grossa. Giuseppe scavò una buca e seppellì la madre, che per grazia d Dio si era rattrappita negli anni. Rimase una cunetta, ma non era un problema, ci avrebbe piazzato sopra un tavolo o qualcosa. La pensione andava sempre a ritirarla lui e di rado il San Paolo chiamava Gianna per accertamenti; a ogni modo, i due avevano registrato un messaggio che diceva sì, sono io, Gianna Scapini, che mando mio figlio Giuseppe Andreoli a ritirare la mia pensione. Potrà sembrare un escamotage di bassa lega, ma vi giuro sul mio onore che alla banca basta sentire la voce. Storia di vita vissuta. Gianna non aveva lo straccio di un amico, visto il carattere merdoso che aveva. Era tutto sotto controllo.
Rimaneva quella sedia a rotelle. Quasi cedette all’idea di venderla, erano passati più di tre mesi dal furto. Ritrovò il senno e scartò l’idea. Niente, se la sarebbe tenuta fino a nuovo ordine.
Il fatto è che Gianna aveva una sorella minore, Sabrina, la quale era testona peggio di lei. Questa pigna in culo si presenta da Giuseppe una settimana dopo e la prima cosa che dice non è ciao, ma: «Perché Gianna non risponde al telefono?».
Giuseppe recita a meraviglia la parte di quello caduto dal pero perché ci casca davvero. Non sapeva dove fosse il telefono della madre.
Sabrina incalza, entra e si appropria degli spazi. Giuseppe pensa che forse ha seppellito il telefono con il cadavere. Mi vuoi rispondere? dice Sabrina. È tutta accaldata, sembra un pomodoro bollito. Poi lo sguardo le cade sulla sedia a rotelle accanto alla poltrona di Gianna. Giuseppe non l’aveva più toccata. Di chi è? L’ho trovata in una discarica abusiva, ho pensato che può sempre servire. C’è mio nipote che s’è fratturato la caviglia. Prendila! esclama Giuseppe. Sabrina lo guarda storto. Giuseppe la ignora. Te la regalo, zia, tanto non l’ho pagata. La prendo. Fammi salutare Gianna che vado.
Giuseppe non funziona sotto pressione e confessa. Sabrina alza le spalle. Tanto sarebbe morta tra poco. Era un mucchio di spazzatura tenuto su da stecchini bianchi. Assistimi a caricare la sedia, pesa.
Il Nostro era un cristiano praticante. Da questo momento lo vedremo spesso in chiesa.
Voglio dire, lo si vedeva spesso prima di finire al gabbio. In parole spicce il figlio di Sabrina, Pierpaolo, il padre del nipote infortunato, riconosce la sedia rubata vista a La Vita in Diretta, denuncia il furto e indica la residenza di Giuseppe alle autorità. In centrale, la donna ricca e il ragazzo senza gambe lo riconoscono come il rapinatore. Non sono entusiasti né arrabbiati. Il ragazzo ha una sedia a rotelle extralusso, con porta bibite e un piccolo monitor. Giuseppe viene condannato a otto anni e otto mesi perché saltano fuori, chissà come, altri episodi di furti da lui compiuti. Pierpaolo gli dice: «Sei la vergogna del nostro cognome. Hai sporcato l’onore e la rispettabilità della famiglia».
Uno degli agenti, tale Luigi, dice a Pierpaolo che si può tenere la sedia, dato che al ragazzo non serve più. Pierpaolo punta i piedi e si rifiuta, lui è un uomo onesto e così vuole essere ricordato.
La donna di nome Cristina e il ragazzo di nome Carlo Alberto, ereditari di un patrimonio di oltre mezzo milione di euro e reduci di una recente vincita al Superenalotto di ottantotto milioni, non sanno che farsene della sedia, tra l’altro usata, e la gettano in uno stagno.


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