DI EDOARDO VALENTE
“Vi sorprendeva con quello stesso trasalimento che si prova quando si è bevuto il tè in una sottile, innocente tazzina e all’improvviso, nel fondo, si scorge una creaturina minuscola, mezza farfalla metà donna, che ci fa l’inchino con le mani nelle maniche.”
Questa è forse una delle immagini che meglio riescono a descrivere e racchiudere quella che fu Katherine Mansfield.
Delicata, sempre in movimento, elegante, decisa, dalla vita breve.
Chi l’ha conosciuta (e spesso, come vedremo, si tratta di grandi personalità letterarie) ha usato spesso immagini simili per parlare di lei.

Dalla provincia dell’Impero, dalla Nuova Zelanda, all’inizio del Novecento sbarca a Londra la piccola Katherine, costantemente animata da grandi desideri, spesso opposti: la voglia di fare nuove esperienze, mescolata alla nostalgia di casa.
Già da qui, forse, si può intuire quello che sarà un elemento costante nella sua vita, ogni volta che ha desiderato qualcosa: la lontananza.
La Mansfield difficilmente stava bene nel luogo in cui era, con le persone con cui si trovava: aveva bisogno di andare altrove, lontano.
Nel 1910 è con un rifiuto che inizia la relazione più importante della sua vita: John Middleton Murry rifiuta il racconto che lei aveva inviato alla rivista per cui lavorava.
L’anno successivo i due iniziano una relazione.
Eppure, per quella che era una sua caratteristica – viene da dire – esistenziale, anche questo rapporto è stato connotato dalla lontananza.
La Mansfield era spesso via, ha vissuto diversi periodi della sua vita in camere d’albergo, in Francia o in Liguria, e quando era lontana da Murry gli scriveva appassionate lettere d’amore, pretendeva sue notizie quotidiane.
È grazie a Murry, che era un rinomato critico letterario, se lei riesce a entrare in contatto con le personalità letterarie che in quegli anni ruotavano attorno al Bloomsbury Group.
Questo era una sorta di collettivo, grazie al quale si incontravano e mettevano in contatto scrittori e scrittrici, filosofi e rappresentanti di spicco della cultura inglese. Da Virginia Woolf e suo marito Leonardo all’economista Keynes; dallo scrittore E. M. Forster alla pittrice Vanessa Bell, fino alla nostra Katherine Mansfield e al marito, che era in stretti rapporti con D. H. Lawrence e T. S. Eliot.
(A quell’epoca, chissà perché, avevano tutti due nomi che scrivevano con le iniziali puntate…)

Ma, nonostante la Hogarth Press, la casa editrice dei coniugi Woolf, abbia dato alle stampe Prelude, l’ormai celeberrimo racconto della Mansfield, lei rimase sempre in disparte rispetto a queste aggregazioni sociali e culturali.
La sua vitalità era compromessa dalla malattia: la tubercolosi.
Continuava a spostarsi da un luogo ad un altro, scrivendo i suoi racconti di getto, riversando la vita che non poteva vivere nelle sue protagoniste.
Se l’idea era buona e la catturava abbastanza, poteva stare anche dieci ore a scrivere, finché il racconto non era terminato.
In un certo senso, per rimanere sulla scia della lontananza, si può affermare che nei momenti di malattia, era proprio la vita stessa ad essere lontana, e dunque era ciò che Katherine desiderava con maggior ardore.
Anche il rapporto con il fratello, che quando era in vita fu strettissimo, ebbe uno strano picco in seguito alla morte di lui. Katherine lo sognò una notte, e pare che in questa apparizione il fratello le abbia detto, riprendendo le parole di Gesù, di cibarsi del suo corpo. A questo avvenimento seguì un periodo in cui lei si identificò sempre di più in lui, come se davvero si fosse cibata del suo corpo. Così, in qualche modo, la lontananza che li divideva si appianò, e lo spirito del fratello smise di tormentarla.
In questo suo stare in disparte, ma pur sempre nel centro pulsante della vita, altre influenze importanti sono state per lei gli incontri immateriali, quelli fatte tra le pagine dei libri.
Di questi incontri letterari, il più importante fu quello con Anton Čechov, che ha profondamente influenzato la produzione giovanile della Mansfield, che apprezzava a tal punto i suoi racconti che desiderò essere considerata la “Čechov inglese”.
All’inizio degli anni Venti, Mansfield e Murry hanno fatto un viaggio in Svizzera, in cui sono stati spesso in compagnia della cugina di Katherine: Elizabeth von Arnim.

Mi sia concesso aprire una parentesi su di lei, poiché è stata una persona dalla vita degna di un focolare.
Nata in Australia con il nome di Mary Annette Beauchamp, anche lei come la cugina fu scrittrice, e anche lei strinse rapporti con grandi personalità dell’epoca.
Sposò un aristocratico tedesco, da cui prese il cognome Arnim, e con lui visse in Inghilterra. (Loro figlio ebbe come precettore E. M. Forster).
Il matrimonio fu infelice, e Elizabeth intrattenne una relazione di tre anni con lo scrittore H. G. Wells.
In seguito alla separazione dal marito, sposò Frank Russell, fratello del filosofo Bertrand Russell.
Oltre a tutto ciò, ricordo che era cugina di Katherine Mansfield, quindi nella sua vita fu circondata da grandi esponenti della cultura.
Torniamo ora da Katherine e, purtroppo, anche dalla sua malattia.
Non voglio, però, raccontare della sua morte a soli trentaquattro anni, ma del periodo poco precedente.
Gli ultimi mesi della sua vita li ha trascorsi a Fontainebleau, attirata dalle teorie professate dal mistico George Gurdjieff, il quale aveva fondato l’Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo.
Nel periodo passato lì, Katherine, che nel sentirsi quanto mai vicina alla morte desiderava più che mai vivere appieno, faceva i lavori che le si diceva di fare, stava all’aria aperta, viveva sostanzialmente in una comunità. Curava gli animali, preparava da mangiare, stava a contatto con la dimensione fisica: la scrittura l’aveva accantonata, tutto ciò che doveva scrivere lo aveva scritto nei precedenti anni di attività frenetica.
In quell’Istituto a Fontainebleau, dove di lì a poco la tubercolosi non le avrebbe lasciato scampo, Katherine aveva trovato quello che cercava, quella vita lontana da lei, e per questo desiderata, della quale ha parlato nei suoi diari:
“Voglio condurre una vita piena, adulta, viva, attiva, a contatto diretto di quanto amo – la terra e le sue meraviglie – il mare – il sole. A contatto di tutto quello che vogliamo dire quando parliamo di mondo esterno. Voglio penetrarvi, esserne una parte, vivervi, imparare quello che insegna, perdere tutto quello che, in me, è superficiale e acquisito, divenire un essere umano cosciente e sincero. Voglio comprendere gli altri comprendendo me stessa. Voglio realizzare tutto quello che sono capace di diventare per essere… una figlia del sole.”




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