DI EDOARDO VALENTE
“Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, – ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…”.
Rottami doveva essere il titolo di una raccolta di poesie pubblicata a Torino, da Piero Gobetti, il 15 giugno 1925, cento anni fa.

Ma quella raccolta è venuta alla luce con un titolo che è oggi entrato nella nostra memoria letteraria comune: Ossi di seppia.
Eugenio Montale si può dire che sia approdato alla poesia per caso (e d’altronde, pochi altri possono essere i modi per approdarvi), e l’ha circondata di musica praticata e di filosofia origliata.
Letture appassionate, canto, divagazioni mentali; un paesaggio, quello ligure, che aveva già in sé alcuni degli elementi che sarebbero poi confluiti nella sua poetica. Uno su tutti: l’aridità.
Sergio Solmi scriveva, nel 1926, che era sbagliato paragonare Montale alla schiera di poeti liguri che in quegli anni scrivevano, accomunati per lo più da radici comuni, e poco altro. E sì che Montale elogia e onora lui stesso Camillo Sbarbaro, ma i suoi versi vanno altrove.

La parola che mi colpisce di più, tra quelle che ho letto in merito agli Ossi di seppia, è “autobiografico”. Eppure, in quelle poesie, viene delineato un percorso, e si scorge una voce che appartiene a qualcuno, personaggio o persona, che diventa alter ego, in qualche modo, di Montale.
Avventurarsi in questo percorso non è facile, a volte rischioso, come un sentiero di roccia, a strapiombo sul mare, deliziato dalla presenza di alberi dai dolci profumi, che non risparmiano dalla canicola del meriggio.
Allora noi stiamo sulla soglia di questo percorso; scorgiamolo, al massimo, a volo d’uccello, poiché avventurarsi tra quelle pietre non è cosa che si possa fare così, con parole intermediarie.
E la raccolta si apre appunto con un testo messo “In limine”, ovvero: sulla soglia.
Di questo testo vi ho riportato all’inizio i versi finali, conclusivi, che lanciano però un’apertura, o che tentano di trovarla.
“Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe”, questo il nostro obiettivo, questo l’auspicio montaliano, il suo tentativo perenne.
Ritroviamo questa tendenza anche nella poesia successiva, considerata effettivamente la prima della raccolta: I limoni.
“talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità”.
Il poeta, a cui è caro l’odore dei limoni, lontano dalla terra d’origine, chiuso in un luogo “dove l’azzurro si mostra / soltanto a pezzi”, si trova d’improvviso di fronte a quei limoni, intravisti “da un malchiuso portone”.
È come colui che, andando un mattino “in un’aria di vetro”, si gira e vede il nulla dietro di sé. Il mondo attorno a noi sembra celarci un segreto, che viene infine tradito, e chi lo scopre, finalmente svuotato di mistero, lo porta con sé.
Cerchiamo la “maglia rotta” in questa “rete che ci stringe”, e a volte ci appare, forse lì c’è una via, in un angolo di cielo, in un fiore o un limone; in una parola udita per sbaglio, in uno sguardo o gesto; in un pensiero improvviso, o di fronte all’abitudine quotidiana.

E poi?
Nulla, si torna a fare quel che si faceva, a vedere quello che si vedeva, e a credere a ciò a cui si credeva, con forse una certezza in meno, un dubbio in più.
Il linguaggio difficile delle poesie di Montale vuole comunicarci una poetica, un pensiero, che sono tipici dell’essere umano di inizio Novecento, sconvolto dalla guerra e dall’avvento dei totalitarismi.
Il modo più semplice per dirlo è con il titolo di una delle poesie della raccolta: Fine dell’infanzia.
L’infanzia, “età illusa”, in cui ancora le cose non hanno nome e le nuvole sono come sorelle. Anche qui torna per Montale l’idea dell’inganno, delle convinzioni in cui viviamo prima di fare il salto nella consapevolezza.
Ci si crede una parte del tutto – qui Montale fa il verso al panismo di D’Annunzio –, ci si rigira nel mare, a cui si appartiene. Finché, spolpati dalla vita, veniamo rigettati a riva, come ossi di seppia, aridi e vuoti.
Finisce l’infanzia, e finiscono gli inganni, la natura non nasconde segreti: ci appare davanti agli occhi il triste meccanismo del mondo, quello in cui le nuvole sono perturbazioni, non più sorelle o sogni.
Torna, allora, l’idea scartata dei “rottami”. Abbandonati sulla spiaggia, dimenticati dal tempo, dalla Natura, dagli dèi; usati e consumati, di noi restano rottami. E ci è “acre la ruggine”.

Eppure, Montale cerca di redimersi, e donarci una speranza, forse proprio quella possibilità di veder cedere l’anello che non tiene nella catena che c’imprigiona.
In chiusura agli Ossi di seppia, un testo solitario, così come lo era In limine in apertura: Riviere.
Allontanandosi dall’arida estate, o dall’oscura disperazione autunnale, Montale ci riporta, infine, quasi in quella luce dei limoni, che scioglie il gelo nel petto.
Perché siamo stati infanti, e adolescenti, e abbiamo creduto e sperato, ci siamo illusi, abbiamo amato e sognato; e tutto questo, che non c’è più, c’è stato. Vi ritorniamo col ricordo, che ci cattura e ci allaccia.
Proprio in quel paesaggio, così consumato, che ci ha condotti sulla via senza uscita della nostra aridità, ritroviamo accenni passati, esistiti, e sempre esistenti.
Così come ci siamo illusi ieri; così come oggi siamo disillusi – “sballottati / come l’osso di seppia dalle ondate”; torneremo domani a illuderci, remando contro le onde che fino a ieri assecondavamo.
E andremo avanti ancora, di illusione in disillusione, fino a quando, chissà…
“Potere
simili a questi rami
ieri scarniti e nudi ed oggi pieni
di fremiti e di linfe,
sentire
noi pur domani tra i profumi e i venti
un riaffluir di sogni, un urger folle
di voci verso un esito; e nel sole
che v’investe, riviere,
rifiorire!”.


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