DI SARA NOEMI SCATOLA

Eh sì, anche io mi aggiungo al club di quelli che hanno provato una forte nostalgia post Salone, e leggere e collaborare a questa serie di articoli con i miei colleghi di M&F e soprattutto Giosuè “il Commendatore”, il mio miglior compagno di lettura (nonché anche fedele accompagnatore e avventuriero che vaga insieme a me in mezzo a tutti gli scaffali delle numerose librerie di Torino), mi dona una sensazione di estrema familiarità e conforto.

Credo che il termine migliore per descrivere il modo in cui forse andrebbe vissuto il Salone del Libro sia “serendipità”. Qui sotto vi lascio il significato di questa parola secondo il vocabolario Treccani:

serendipità s. f. [dall’ingl. serendipity, coniato (1754) dallo scrittore ingl. Horace Walpole che lo trasse dal titolo della fiaba The three princes of Serendip: era questo l’antico nome dell’isola di Ceylon, l’odierno Srī Lanka], letter. – La capacità o fortuna di fare per caso inattese e felici scoperte.

Ecco, la capacità o fortuna di fare per caso inattese e felici scoperte. Quanto suona bene il pensiero di lembi di vita che si presentano così – per caso o per fato – e che sono in grado di far invertire rotta alla giornata.

Devo dire che io non sono riuscita ad attraversare lo specchio del Salone con serendipità, e riguardandomi indietro mi sarebbe piaciuto riuscire a farlo. Perché non approfittare, in fondo, di una tale occasione per condividere la propria passione per i libri con altre persone altrettanto affascinate da queste pile di carta stampata e rilegata?

Forse avrei potuto lasciare che le persone attraversassero il mio specchio, e avere la fortuna così di fare per caso inattese e felici scoperte.

Nonostante questo, il Salone me lo sono goduto a pieno. E me lo sono goduto davvero.

Per la prima volta posso dire di aver davvero vissuto il Salone, fermandomi per l’intera giornata di domenica, tornando il pomeriggio del giorno dopo e partecipando a svariate conferenze.

Prima di quest’anno, avevo sempre solo girato fra gli stand, sentendomi poi alquanto sopraffatta dalla quantità di persone e andandomene dopo poche ore. Non ero nemmeno a conoscenza del fatto che il Salone si estendesse anche dentro l’Oval del Lingotto. Ma fortunatamente, grazie anche alla guida, all’energia e all’iniziativa del Comitato di Redazione di Mercuzio&Friends, ho potuto fare esperienza di tanti lati del Salone che erano sempre stati per me nascosti.

La stanchezza fisica si è fatta sentire poco, ero troppo emozionata. Desideravo che ogni minuto si slabbrasse e strabordasse dai suoi canonici sessanta secondi, e che magicamente acquistasse qualche secondo in più, così che il tempo potesse darmi in prestito altri istanti prima del giungere della sera.

La mattina della domenica si è aperta, dopo un veloce giro di esplorazione degli stand (e un inevitabile innamoramento a prima vista per lo stand dell’Ippocampo), con l’incontro con Chiara Francini, donna dal sorriso contagioso, dalla risata goduriosa e dalla personalità sfavillante. Tutto di lei esprime autenticità e accoglienza, decorato dall’inconfondibile accento toscano.

La mia esperienza è stata arricchita dalla fortuna di poter condividere la giornata con persone a me care, da incontri attesi ma non programmati, dal ritrovare me stessa e le mie assillanti domande all’interno di un libro illustrato. E dall’avere accanto qualcuno con cui potermi emozionare. Qualcuno cui potermi affidare nella mia autenticità.

È affascinante osservare così tante persone disposte a passare le loro intere giornate all’interno di un luogo chiuso, affollato, a mettersi in coda per il bagno, a fare la fila per le conferenze, ad attendere per interminabili minuti, ad accamparsi per un pranzo improvvisato, o forse a non pranzare affatto, tutto nel nome dell’Arte, della Cultura, della Bellezza e di ciò che appaga il loro cuore.

Il mio luogo di ristoro quest’anno è stato il Bosco degli Scrittori, allestito all’interno dell’Oval nell’angolo destro. Il lunedì sera, ormai giunta agli sgoccioli della fiera, mi sono presa un momento per riposare le spalle appesantite dallo zaino e le gambe che avevano sorretto il mio corpo con tanta efficienza per molte ore. E non c’era miglior modo per farlo se non sedendomi su panchine di legno sotto veri alberi attraversati da un ruscello d’acqua fresca.

E uscendo dall’Oval, verso le ore 19, ho scattato questa foto, che secondo me rappresenta il titolo di questo articolo:

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